(Già pubblicato sul quotidiano l'Inchiesta)
Così titolava un piccolo scritto
che raccoglie un breve carteggio Freud – Einstein del 1932. La società delle nazioni aveva invitato l’Istituto internazionale per la cooperazione
a promuovere un dibattito epistolare su temi di interesse generale tra gli
esponenti più significativi del mondo
culturale dell’epoca. Il primo ad essere interpellato fu Einstein, il quale a
sua volta fece il nome di Freud. Entrambi erano pacifisti, si conoscevano e
nutrivano stima reciproca. Nella lettera che invia a Freud Einstein chiede:”C’è un m odo
per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? […] Rispondere a questa domanda è divenuto una questione di
vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la
buona volontà, nessun tentativo di soluzione è approdato a qualcosa”. Parole
quanto mai attuali e che possiamo fare n ostre. All’epoca si era lontani dallo
scoppio della seconda guerra mondiale, ma, tuttavia c’era un sentore, una
preoccupazione, avvertita presumibilmente dal ricordo ancora bruciante della
prima conflagrazione mondiale, dei danni enormi che aveva arrecato ai popoli
coinvolti, degli stravolgimenti degli assetti politici europei che aveva
causato, il che induce Einstein a porre “una domanda che appare, nella presente
condizione del mondo, la più urgente fra tutte che si pongono alla civiltà”.
Nulla di più pertinente con il nostro
oggi.
Se volessimo
andare indietro nella catena causale noi, oggi, siamo a questo punto proprio a
causa di quel primo conflitto mondiale. Perché se non ci fossero stati i
trattati umilianti di V ersailles, non ci sarebbero stati i desideri di
revanche della Germania, non ci sarebbero stati un Hitler e una seconda guerra
mondiale, non ci sarebbe stata Yalta con la spartizione del mondo tra URSS e
USA, non ci sarebbe stata la guerra fredda ed il timore di una guerra nucleare
che ha turbato le nostre infanzie. Ed ora siamo qui, più o meno allo stesso
punto di 70 anni fa. C’è una differenza però rispetto all’intervallo tra le due
guerre mondiali: le coscienze erano allertate. Noi, invece, siamo stati
dimentichi e distratti. Si dice che abbiamo goduto di 80 anni di pace. Mai
menzogna più grande. Godevamo di una pace fittizia: erravamo in pace solo
perché la guerra e i conflitti venivano esportati altrove, in paesi ritenuti
subalterni, lontani e diversi da noi. Nel medesimo periodo di pseudo-pace
occidentale ci sono stati più di 150
conflitti nel mondo. Ma erano lontani da noi, un noi troppo preoccupato e
coinvolto nella crescita economica e nel raggiungimento di un benessere
diffuso.
Ma ora siamo
in guerra, ormai da dodici giorni. Dico “siamo”
perché questa guerra ci riguarda tutti in quanto cittadini appartenenti a paesi
democratici che condividono i medesimi valori, la cui difesa, se violati ed
offesi, in automatico, ci coinvolge. Ma non solo: la sorte degli altri
inevitabilmente ci implica in quanto ne siamo corresponsabili: ne siamo
corresponsabili ogni qual volta non abbiamo fatto nulla per impedire che il
male si abbatta sugli altri. Putin non
si è improvvisato: la sua è stata un’escalation di comportamenti che non potevano sfuggire ad occhi attenti e a menti pensanti. Dove eravamo
quando Putin occupava Crimea e Georgia? Con Putin abbiamo continuato a fare
affari, alcuni nostri politici populisti erano suoi simpatizzanti ( Salvini ha
indossato una maglietta con la sua faccia). Ed ora siamo in guerra. Nessuno di
noi conosceva l’Ucraina: o meglio la conoscevamo ( nella nostra arroganza la
percepivamo) come il paese da cui venivano le badanti per i nostri vecchi di
cui noi occidentali, impegnati in altre faccende, non vogliono più occuparsi,
la conoscevamo come paese-riserva da cui attingere bambini da adottare. Ne
conoscevamo la dimensione più debole e precaria. Ora scopriamo invece un paese dall’antica
storia, dalle città ricche di monumenti
di arte. La percepiamo ,ora, come
parte dell ‘Europa, un paese come noi. Scopriamo
un popolo operoso, fatto di medici, ingegneri, professionisti, ma soprattutto
un popolo coraggioso, uomini e donne, disposti a lottare fino all’ultimo sangue
per la loro libertà.
Ma torniamo
alla domanda di Einstein. Freud risponde con una risposta che ci appare, oggi, semplicemente ottimista. Una
speranza, egli stesso dice, non utopistica. Egli si augura che le
trasformazioni psichiche prodotte dalla civilizzazione (e forse anche dalla
diffusione dalle conoscenze della psicoanalisi?) pongano fine alle guerre in un
prossimo futuro. Siccome la guerra contraddice le trasformazioni psichiche
(“rafforzamento dell’intelletto” ed “interiorizzazione dell’aggressività”)
attuate dal processo di civilizzazione dobbiamo, egli dice “necessariamente
ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta
soltanto di un rifiuto intellettuale ed affettivo, per noi pacifisti si tratta
di di un’intolleranza costituzionale, per cosi dire della massima
idiosincrasia”. Freud coglie un insita antitesi tra “razionalità”, sviluppo
psichico e guerra. Alla fine chiude la lettera di risposta ad Einstein chiedendosi:”Quanto dovremo
aspettare perché gli altri diventino pacifisti?”.
Dalla morte di Freud (1939) sono
passati parecchi decenni e le guerre sono ancora qui, un fatto tragico ed inquietante, complicato, quasi
impossibile, da spiegare.