Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia

venerdì 11 marzo 2022

Perché la guerra? La domanda che Albert Einstein pone a Freud nel lontano 1931

 (Già pubblicato sul quotidiano l'Inchiesta)

Così titolava un piccolo scritto che raccoglie un breve carteggio Freud – Einstein del 1932.  La società delle nazioni aveva invitato l’Istituto internazionale per la cooperazione a promuovere un dibattito epistolare su temi di interesse generale tra gli esponenti più significativi  del mondo culturale dell’epoca. Il primo ad essere interpellato fu Einstein, il quale a sua volta fece il nome di Freud. Entrambi erano pacifisti, si conoscevano e nutrivano stima reciproca. Nella lettera che  invia a Freud Einstein chiede:”C’è un m odo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? […] Rispondere  a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è approdato a qualcosa”. Parole quanto mai attuali e che possiamo fare n ostre. All’epoca si era lontani dallo scoppio della seconda guerra mondiale, ma, tuttavia c’era un sentore, una preoccupazione, avvertita presumibilmente dal ricordo ancora bruciante della prima conflagrazione mondiale, dei danni enormi che aveva arrecato ai popoli coinvolti, degli stravolgimenti degli assetti politici europei che aveva causato, il che induce Einstein a porre “una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte che si pongono alla civiltà”. Nulla di più pertinente con il  nostro oggi.

Se volessimo andare indietro nella catena causale noi, oggi, siamo a questo punto proprio a causa di quel primo conflitto mondiale. Perché se non ci fossero stati i trattati umilianti di V ersailles, non ci sarebbero stati i desideri di revanche della Germania, non ci sarebbero stati un Hitler e una seconda guerra mondiale, non ci sarebbe stata Yalta con la spartizione del mondo tra URSS e USA, non ci sarebbe stata la guerra fredda ed il timore di una guerra nucleare che ha turbato le nostre infanzie. Ed ora siamo qui, più o meno allo stesso punto di 70 anni fa. C’è una differenza però rispetto all’intervallo tra le due guerre mondiali: le coscienze erano allertate. Noi, invece, siamo stati dimentichi e distratti. Si dice che abbiamo goduto di 80 anni di pace. Mai menzogna più grande. Godevamo di una pace fittizia: erravamo in pace solo perché la guerra e i conflitti venivano esportati altrove, in paesi ritenuti subalterni, lontani e diversi da noi. Nel medesimo periodo di pseudo-pace occidentale ci sono stati più di  150 conflitti nel mondo. Ma erano lontani da noi, un noi troppo preoccupato e coinvolto nella crescita economica e nel raggiungimento di un benessere diffuso. 

Ma ora siamo in  guerra, ormai da dodici giorni. Dico “siamo” perché questa guerra ci riguarda tutti in quanto cittadini appartenenti a paesi democratici che condividono i medesimi valori, la cui difesa, se violati ed offesi, in automatico, ci coinvolge. Ma non solo: la sorte degli altri inevitabilmente ci implica in quanto ne siamo corresponsabili: ne siamo corresponsabili ogni qual volta non abbiamo fatto nulla per impedire che il male  si abbatta sugli altri. Putin non si è improvvisato: la sua è stata un’escalation di comportamenti che  non potevano sfuggire ad  occhi attenti e a menti pensanti. Dove eravamo quando Putin occupava Crimea e Georgia? Con Putin abbiamo continuato a fare affari, alcuni nostri politici populisti erano suoi simpatizzanti ( Salvini ha indossato una maglietta con la sua faccia). Ed ora siamo in guerra. Nessuno di noi conosceva l’Ucraina: o meglio la conoscevamo ( nella nostra arroganza la percepivamo) come il paese da cui venivano le badanti per i nostri vecchi di cui noi occidentali, impegnati in altre faccende, non vogliono più occuparsi, la conoscevamo come paese-riserva da cui attingere bambini da adottare. Ne conoscevamo la dimensione più debole e precaria.  Ora scopriamo invece un paese dall’antica storia, dalle città ricche di  monumenti di arte.  La percepiamo ,ora, come parte  dell ‘Europa, un paese come noi. Scopriamo un popolo operoso, fatto di medici, ingegneri, professionisti, ma soprattutto un popolo coraggioso, uomini e donne, disposti a lottare fino all’ultimo sangue per la loro libertà.

Ma torniamo alla domanda di Einstein. Freud risponde con una risposta che  ci appare, oggi, semplicemente ottimista. Una speranza, egli stesso dice, non utopistica. Egli si augura che le trasformazioni psichiche prodotte dalla civilizzazione (e forse anche dalla diffusione dalle conoscenze della psicoanalisi?) pongano fine alle guerre in un prossimo futuro. Siccome la guerra contraddice le trasformazioni psichiche (“rafforzamento dell’intelletto” ed “interiorizzazione dell’aggressività”) attuate dal processo di civilizzazione dobbiamo, egli dice “necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale ed affettivo, per noi pacifisti si tratta di di un’intolleranza costituzionale, per cosi dire della massima idiosincrasia”. Freud coglie un insita antitesi tra “razionalità”, sviluppo psichico e guerra. Alla fine chiude la lettera di risposta  ad Einstein chiedendosi:”Quanto dovremo aspettare perché gli altri diventino pacifisti?”.

Dalla morte di Freud (1939) sono passati parecchi decenni e le guerre sono ancora qui, un fatto tragico  ed inquietante, complicato, quasi impossibile, da spiegare.