(Articolo già pubblicato sul quotidiano L'Inchiesta)
Tra la molte
incertezze delle ultime settimane, la scuola decolla. Certo rimangono
ancora dubbi in merito alla soluzione del problema trasporti, alle vaccinazioni
dei minori al di sotto dei dodici anni e alla presenza dei docenti che
all’inizio dell’anno mancano sempre: Ma una cosa è certa: la scuola si farà in
presenza. Troppi i costi patiti dalla popolazione studentesca negli ultimi due anni. Che la dad avrebbe
funzionato male era evidente fin dall’inizio della pandemia. La scuola non era
pronta né era dotata di flessibilità per
apportare modifiche alla didattica in un nuovo paradigma esistenziale. Molti
allievi e docenti hanno avuto difficoltà ad utilizzare la strumentazione
tecnica e le stesse famiglie, che spesso
hanno dovuto affiancare i figli. La confusione che ha caratterizzato la prima
fase della pandemia, la difficoltà ad adattarsi ad una nuova tipologia di
insegnamento e poi, successivamente, l’alternarsi di scuola in dad ed in
presenza hanno determinato una significativa perdita di tempo e dunque un minor
tempo da dedicare agli studi da parte dei ragazzi. E anche stanchezza e stress, ingenerati dal clima depressivo causato dalla pandemia,
hanno fatto la loro parte. Molto tempo si è perso, soprattutto la scorsa
estate, a discutere di didattica. Ma
quale didattica? Si è parlato piuttosto di logistica, di banchi con le ruote,
di distanziamento, di aule. Questo non ha nulla a che v edere con la didattica
che si occupa, invece, dei metodi e dei contenuti di insegnamento. E’ mai
possibile che a nessuno sia venuta in mente almeno un’”ideuccia” nuova su come
gestire e rendere comunque produttiva un’attività didattica frammentaria e a
singhiozzo con pause, lavoro in dad e poi in presenza. Stiamo parlando
ovviamente della scuola econdaria la più penalizzata. A nessuno è venuto in
mente che in una situazione in cui il tempo da dedicare allo studio era
ridotto, in cui molta era la confusione, sarebbe stato opportuno fare tagli
drastici ai programmi consueti e lavorare per aree tematiche comuni a più
discipline? Nessuno ha pensato che in questa situazione così complessa e
difficile, si sarebbe dovuto potenziare
l’aspetto metodologico, dando agli allievi strumenti di studio tali da poter
studiare anche da soli? L’unica preoccupazione poi, una volta rientrati in
presenza, cercare di finire i programmi
e valutare gli allievi i quelli hanno dovuto sostenere un alto numero di
valutazioni in un tempo molto ridotto
Ho spesso
denunciato su questo giornale la preoccupante condizione della scuola
italiana, ma in questi due ultimi anni
la situazione è precipitata soprattutto alle superiori. Hanno resistito solo le
elementari. Sembrerebbe che la metà dei ragazzi che hanno sostenuto la maturità
abbiano saputo rispondere solo a domande
che dovrebbero essere tipiche dei programmi di terza media. I risultati
peggiori si sono avuti nelle scuole che sono rimaste chiuse più a lungo. A pagare il prezzo più alto, in termini di
povertà educativa e culturale, sono i ragazzi che provengono dalle famiglie più
povere, quelli che con la scuola in presenza riuscivano a cavarsela anche senza
aiuto di mamma e papà.
Dunque la scuola in presenza è una necessità
imprescindibile. L’insegnamento è “stile incarnato”: ciò che viene impartito, sia esso un contenuto, un metodo
di lavoro, non è mai neutro. Acquista significatività, senso, suscita passione,
coinvolgimento grazie alla presenza dell’insegnante il quale trasmette agli allievi
il valore e il senso che per lui hanno le cose che insegna. La dad fallisce
perché si impara in una prospettiva relazionale. Ma la dad ha semplicemente
aggravato le pecche e le difficoltà della scuola italiana.
La scuola, la società, le
famiglie stesse, non sono più in grado di educare. Educare significa appunto
“condurre fuori”. Appunto essere
condotti fuori dall’ignoranza, dalla noia, dal non senso, dal vivacchiare
aggrappati a telefonini e social. Abbiamo creato nei nostri ragazzi uno
spaventoso vuoto interno. Anche la scuola su questo fronte registra il suo
fallimento. Non riesce ad appassionare, a dare contenuti formativi né un orizzonte di senso sia per l’oggi che
per il domani. Né è capace di
strutturare personalità responsabili, educare ad una coscienza morale,
sviluppare l’immaginario e suscitare passione per un qualcosa, il che
significa saper sviluppare un progetto
per il futuro. Sempre volta a rincorrere lo sviluppo delle cosiddette
“competenze” la scuola ha dimenticato
ciò che è fondamentale. Come avere in casa un bellissimo vaso ma senza
fiori.
Se si parla con allievi magari segnalati tra i
più bravi della scuola, si rimane perplessi. Alla domanda “Che facoltà
sceglierai all’Università?” La risposta è sempre la stessa:”Una facoltà scientifica
che mi assicuri di trovare un lavoro che mi faccia guadagnare bene”. La facoltà
più gettonata è ingegneria, ritenuta la più duttile a posizionarsi, e bene, nel
mondo del lavoro. In clima di covid-19 ci saremmo aspettati un guizzo di
idealismo, di prosocialità, magari
appunto un marcato interesse per la biologia e la ricerca. Ovviamente del tutto
dimenticate le facoltà umanistiche. Niente sogni, niente passioni, niente
aspirazioni. Colpisce questo radicale realismo che porta inevitabilmente a perdere
intelligenze e risorse, che potrebbero essere produttive in altri ambiti di
tipo anche speculativo. Ma c’è da meravigliarsi con una scuola che ha distrutto
quasi tutto di ciò che la rendeva eccellente, che rincorre solo le competenze, gli human skills e l’educazione digitale?