Si tratta di un saggio che il padre della psicanalisi, deluso
degli eventi tragici, scrisse nel 1915. Un uomo, Freud, appartenente alla
corrente illuministica della cultura ebraica, lucido e razionale, privo di
illusioni, che guarda gli eventi con occhio psicoanalitico. La guerra per lui fu
un elemento di radicale rottura di quell’ottimismo che aveva caratterizzato la
fine del secondo ottocento. Un regresso della ragione all’uomo primordiale, la
perdita del “prezioso patrimonio comune all’umanità, costruito lungo i secoli”.
Eppure, come molti, anche Freud, alla dichiarazione della guerra, era stato
preso da quell’entusiasmo che aveva trascinato molta buona classe
intellettuale. Si trattava di un mondo ingenuo e fiducioso convinto che mai
Francesco Giuseppe, ormai ottantacinquenne, potesse chiamare alle armi
il suo popolo se non vi fosse stata la necessità di opporsi a criminali
avversari che minacciavano la pace dell’impero. Dopo mezzo secolo di pace
nessuno ricordava più gli orrori della guerra, la quale appariva adesso,
nell’immaginario collettivo, quasi
un’impresa romantica , un’avventura “travolgente e virile”(Zweigg) e, comunque,
una cosa che si sarebbe risolta in brevissimo tempo. Sicché molti giovani
temevano addirittura di poter essere esclusi e perciò correvano entusiasti e numerosissimi sotto le
bandiere che si andavano preparando. Gli stessi figli di Freud si arruolarono.
Ma Freud si ricredette quasi subito: ciò
che lo colpiva era la mancanza di moralità degli Stati, la brutalità di quella
guerra impensabile per una civiltà progredita. Lo sguardo analitico lo porta a vedere come gli impulsi distruttivi
non sono mai estirpati dal profondo dell’animo umano: continuano ad esistere, allo stato latente, comportamenti
primitivi tipici di fasi precedenti di sviluppo che possono emergere e
annullare gli sviluppi successivi. La
guerra, procurando l’annebbiamento delle facoltà intellettuali e delle
acquisizioni morali, li ha semplicemente svelati.
“La propria morte”
dice Freud, “è irrapresentabile..”Gli uomini si comportano come se non
esistesse.Ma la guerra ha riproposto inevitabilmente la riflessione sulla morte
e il dover fare i conti con la sua innegabile evidenza perché “gli uomini
muoiono veramente, e non uno alla volta ma in gran numero, spesso a decine di
migliaia al giorno”. Tra le molte osservazioni filosofiche e antropologiche emergono
nel testo anche quelle di interesse clinico come il concetto di ambivalenza
affettiva, la coppia di amore e odio, concetto che darà luogo ad altre future
teorizzazioni. Il tema della morte sarà ripreso successivamente in altri testi
di gran lunga più complessi dal punto di vista teorico e di più vasto interesse
clinico. Uno scritto “Considerazioni
attuali sulla guerra e sulla morte” che
appartiene alla riflessione freudiana di tipo più speculativo, a cui vale la
pena per l’uomo contemporaneo ancora rivolgersi per comprendere qualcosa in
merito alla complessità dell’animo umano e dei fatti della vita. Un testo,
quello in oggetto, attraversato da una vena pessimistica, che si accentuerà
sempre più in Freud ma che si affianca, anche, ad una luce di speranza : “Quando
il lutto sarà superato, apparirà che la nostra alta considerazione dei beni
della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro fragilità. Torneremo
a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di
prima”
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