Marina Abramovic è,
abuon titolo, considerata l’icona della “performance art”, una forma
espressiva di non facile comprensione,
specifica della contemporaneità. Ogni opera d’arte va compresa all’interno del
contesto storico-culturale in cui si sviluppa. Non si può comprendere l’arte
performativa, che vuole, per realizzarsi e completarsi, la presenza del
pubblico, al di fuori dello zeitgeist culturale di fondo che alimenta sempre la
psicologia quotidiana cioè il modo
comune di percepire, interpretare, sentire, i fatti, le cose e l’arte stessa.
Negli ultimi decenni, a seguito delle filosofie fenomenologiche, si è
sviluppata l’idea di una nostra ineliminabile relazionalità e coappartenenza,
gli uni con gli altri, resa possibile primariamente dalla nostra corporeità.
Nella performance art (come nella body art) il corpo è protagonista ma non nel
modo tradizionale. Non v’è contemplazione del corpo ma un corpo che vive-agisce e si autorappresenta. E non
si può comprendere l’arte performativa al di fuori della generale ossessiva (e
talora inquietante) presenza del “corpo”
nel mondo di oggi, corpo che, come mezzo e forma di linguaggio, attraversa le
varie forme della vita: dai fenomeni psicopatologici (cutting, disturbi
alimentari), alle forme di comportamenti diffusi (tatuaggi, chirurgia estetica),
alla caratterizzazione del genere e alla pubblicità (uso e abuso del corpo
femminile), all’arte stessa. Sorrentino ironizzava su
alcune di queste forme ne “La grande bellezza”, affresco
Psicologa,Psicoterapeuta,filosofa, istruttrice Mindfulness: alla fonte autentica della Psicologia Umanistica*
Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia