Marina Abramovic è,
abuon titolo, considerata l’icona della “performance art”, una forma
espressiva di non facile comprensione,
specifica della contemporaneità. Ogni opera d’arte va compresa all’interno del
contesto storico-culturale in cui si sviluppa. Non si può comprendere l’arte
performativa, che vuole, per realizzarsi e completarsi, la presenza del
pubblico, al di fuori dello zeitgeist culturale di fondo che alimenta sempre la
psicologia quotidiana cioè il modo
comune di percepire, interpretare, sentire, i fatti, le cose e l’arte stessa.
Negli ultimi decenni, a seguito delle filosofie fenomenologiche, si è
sviluppata l’idea di una nostra ineliminabile relazionalità e coappartenenza,
gli uni con gli altri, resa possibile primariamente dalla nostra corporeità.
Nella performance art (come nella body art) il corpo è protagonista ma non nel
modo tradizionale. Non v’è contemplazione del corpo ma un corpo che vive-agisce e si autorappresenta. E non
si può comprendere l’arte performativa al di fuori della generale ossessiva (e
talora inquietante) presenza del “corpo”
nel mondo di oggi, corpo che, come mezzo e forma di linguaggio, attraversa le
varie forme della vita: dai fenomeni psicopatologici (cutting, disturbi
alimentari), alle forme di comportamenti diffusi (tatuaggi, chirurgia estetica),
alla caratterizzazione del genere e alla pubblicità (uso e abuso del corpo
femminile), all’arte stessa. Sorrentino ironizzava su
alcune di queste forme ne “La grande bellezza”, affresco metafisico sulla
realtà contemporanea: il mondo fatuo della chirurgia estetica, la performance
dell’artista di turno che, dopo aver preso la rincorsa, schiaccia violentemente
la testa contro il muro cadendo svenuta a terra.
Ma non facciamo confusione con Marina Abramovic!
Di origine serba, ha studiato presso l’accademia di belle
arti di Belgrado, ma appartengono alla sua formazione la conoscenza dell’arte
classica italiana (Giotto, Piero della Francesca, Caravaggio) e la
frequentazione dell’avanguardia italiana (De Dominicis, Ontani, Pistoletto, I
Mertz, ecc..) Le sue prime performances risalgono alla metà degli anni’70. Sono
di questo periodo le sue prime istallazione in Italia. Presenta alla galleria Diagramma di Milano Rhytm 4 eRhytm 0 alla
Morra Arte studio di Napoli nel’ 75. L’Abramovvic diventa un’artista affermata
negli anni’90 che la vedono impegnata in mostre, personali e collettive,
workshop in tutto il mondo. Nel’97 vince la Biennale di Venezia con la performance
“Balkan Baroque” dove, per tre giorni, Marina, pulisce, calata dentro, un
cumulo di ossa di animali sanguinolenti,
cantando litanie inframmezzate da lamenti mentre in contemporanea vengono
proiettati video inerenti al suo paese di appartenenza dilaniato dalle guerre.
Personalità forte, coraggiosa, sfidante, si è spinta, nella
sua ricerca, oltre i propri limiti
fisici e psichici, mettendo a rischio anche la sua incolumità. E’
specifico della sua indagine un voler andare oltre i limiti e i confini del
corpo in una espansione della coscienza individuale verso una compenetrazione
con il pubblico. Perciò quelli di Marina diventano eventi fortemente ed
emotivamente coinvolgenti. L’arte coinvolge sempre altrimenti non sarebbe arte
fruibile. Un’arte che non ci coinvolge si riduce a giudizio estetico degli
addetti ai lavori di cui dobbiamo fidarci ma che lascia indifferente il nostro
cuore. Ma nelle installazioni di Marina v’è un “oltre”, che condensa le
suggestioni della cultura asiatica, tibetana, quella degli aborigeni e degli
sciamani, l’apprendimento di tecniche di concentrazione e respirazione che le
consentono il poter stare nella “presenza”
momento per momento.Tutto questo arriva al pubblico di Marina e le neuroscienze
ci spiegano il perché.
Certo, non è facile avvicinarsi all’arte performativa ma è
utile seguire il suggerimento del grande critico Heinrich Wolfflin:”Proprio
come si impara una lingua straniera con i suoi vocaboli e la sua grammatica,
occorre imparare a vedere uno stile secondo le sue proprie strutture di senso,
e apprendere a giudicarlo iuxta propria
principia , e non secondo un canone particolare (tipicamente la bellezza
classicisticamente intesa) più o meno surrettiziamente innalzato a criterio
universale”
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