Serve sempre qualche tragico fatto per riportare alla consapevolezza e al senso di responsabilità nei confronti dei bambini e degli adolescenti. Potremmo definirli “orfani”: orfani di tutela, di protezione, di sostegno autentico, di cura amorevole. Perché avere cura significa avere a cuore il bene degli altri. E’ stata necessaria una pandemia per renderci conto di un sommerso di sofferenza dei minori che si preferisce non vedere perché se si vede poi bisogna mettersi in discussione e fare autocritica. Tutti: genitori ed educatori.
Stati depressivi, tentativi suicidali, abuso di alcool,
autolesionismo, condotte a rischio sono
fortemente diffusi tra i ragazzi e soprattutto tra gli adolescenti e
nell’ultimo anno sono sensibilmente aumentati. Sintomo di una sofferenza, di
una difficoltà a muoversi nella vita che non viene a galla, che non viene
“detta” perché non c’è ascolto. E poi l’adolescente non parla perché troppo forte è il bisogno, fisiologico per
quell’età, di mostrarsi all’altezza delle situazioni, di essere forte ed
invincibile, di non aver bisogno. Fin quando qualcosa sfugge di mano e allora
si apre la voragine del dolore e della gtragedia. Le famiglie sono indaffarate,
vanno di fretta e sono stressate. Offrono molte cose ai loro figli ma non tempo
e presenza. Ormai una vasta ricerca in neuroscienze e psicologia ci informa che
dove c’è stress non ci sono cura ed attenzione per gli altri. Anche i ritagli
di tempo che si trascorrono insieme, in famiglia, non lasciano posto a reali
relazioni: ci si riunisce intorno ad un tavolo ma ognuno in simbiosi con il
proprio cellulare. Come si fa a vietare ai figli l’uso del telefonino se sono
essi stessi, i genitori, ad abusarne. E poi come si fa a negare ad un figlio il
telefonino? Ce l’hanno tutti! E’ inutile ricordare che bravi genitori sono
quelli che sanno dire anche rigorosi “no”.
E la stessa scuola, che mai come
durante la pandemia ha mostrato la sua indispensabilità e centralità nella vita
dei ragazzi, affogata nel mare delle incombenze burocratiche, non riesce ad
appassionare, a suscitare interesse, curiosità. Basti leggere i dati dell’Ocse
sul livello di formazione e delle conoscenze dei nostri ragazzi. Con la
pandemia e con l’isolamento è venuto a
mancare quel “cuscinetto sociale” che la scuola, nonostante le inefficienze,
continua a costituire per i ragazzi: occasione di crescita, di confronto con i
pari, palestra relazionale in cui misurarsi ed esercitarsi per le prove e le
sfide della vita adulta. La riduzione delle relazioni umane dirette ha
intensificato l’uso dei telefonini, computer e social, che, va detto, hanno
anche avuto una loro funzione positiva: hanno offerto ad esempio la didattica a
distanza. Ma hanno anche aumentato la dipendenza. Di fatto questi congegni, che
sono diventati quasi un prolungamento del nostro corpo (ci sentiamo persi se
dimentichiamo il telefonino o se il computer va in tilt), hanno un forte potere
in quanto uilizzano meccanismi cerebrali
e mentali che sono i medesimi coinvolti in altre forme di dipendenza
psicopatologica (tossicodipendenza, acquisto compulsivo, ecc.): i meccanismi
della ricompensa o reward legati al
neurormone dopamina che provvede la sensazione di piacere. Soprattutto il
cellulare (i cui effetti pericolosi non vengono mai abbastanza sottolineati
perché di fatto è uno strumento utile) offre un contatto costante, tutto
sommato facile, che si può avere in ogni momento, e quindi la sensazione
(illusoria) di avere moltissimi amici e di essere “sulla piazza” cioè non “ignorato”
che è forse la cosa che si teme di più. I like poi ti fanno sentire okay,
accettato, ti danno la sensazione di avere valore. Si può lottare contro tutto
ciò? Penso proprio di sì anche se non è facile. Esistono, tra l’altro,
moltissime tecniche di disabituazione che possono essere applicate collettivamente a bambini e ragazzi anche a
scuola. Ma bisogna volerlo e volerlo congiuntamente Scuola e famiglia.
Colpisce la testimonianza del
padre della piccola Antonella: la bimba avere tre pagine facebook che lui
lasciava tranquillamente utilizzare convinto che vedesse i balletti. Colpisce
ancora di più l’altra tragedia consumatasi a Bari quella di un bimbo di nove
anni trovato impiccato a pochi giorni dalla morte di Antonella. Ora si parla di
voler oscurare le piattaforme, di voler regolamentare in modo più rigoroso
l’accesso dei minori, cosa che si “deve” fare. Ma qui siamo già alla fase
finale del processo dannoso. Il danno incomincia già molto prima: nell’incuria,
nella disattenzione, nell’ assenza degli adulti. E’ impensabile che dopo la tragedia di Palermo
i genitori, tutti, non siano entrati in allarme, non si siano interrogati, non
si siano messi in ascolto. Forse la tragedia di Bari poteva essere evitata. Il
punto è che la nostra mente evoluta di Homo Sapiens ci fa ritenere che il male,
la tragedia, il dolore toccherà sempre agli altri ma non a noi.
Maria Felice Pacitto
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