Dopo Parigi viviamo tutti una grande paura. ed incertezza. E già incominciano a manifestarsi, in molti, i tipici sintomi del Disturbo Post Traumatico da Stress. Con la paura dovremo convivere e per molti anni perché il terrorismo è un fenomeno complesso fatto di molte componenti storiche, politiche, religiose e non ultime le frange malavitose dell'occidente, che non si fanno scrupolo di fornire armi e mezzi tecnici all'ISIS, e i giovani terroristi che chiudono il cerchio delle azioni terroristiche.
Quasi nessuno è più convinto che la storia sia maestra di vita.
E se anche lo fosse, insegnante di vita, ha pessimi allievi. Si,perché, dopo la
strage di Charlie Hebdo, la guardia avrebbe dovuto rimanere in allerta in
Francia ( e in tutti i paesi occidentali) e non solo nel senso del
controllo ma anche nella produzione di piani e strategie volte allo scioglimento
dei conflitti e della violenza perché, è evidente, che qualsiasi manovra di
vendetta e di ritorsione ci allontana sempre più dalla pace ed aumenta e
riproduce la violenza. Eppure la conoscenza del tessuto sociale avrebbe dovuto allertare Parigi, una città di
10 milioni di abitanti e con un forte tasso di immigrazione. Le banlieu, zone
di emarginazione
e di vero aparthied, che nacquero con l’intento di alloggiarvi quanti non fossero desiderabili , presentabili
e disturbanti i luccichii di Parigi, sono una fonte di reclutamento per i
jidaisti.. Fin dagli attentati del 1995
al metrò parigino,gli islamisti radicali in Francia sono cresciuti. Si tratta
di generazioni cresciute e scolarizzate in Francia, convertitesi al jidaismo .
Generalmente il loro percorso è stato questo: vita di banlieu, delinquenza,
carcere, conversione alla jihad, viaggio verso un paese del medio oriente in guerra, viaggio che è senza ritorno. È
difficile, quasi impossibile, tornare indietro, perché le loro personalità,
com’è tipico di ogni regime dittatoriale, sono fortemente plasmate e
trasformate durante l’addestramento.Ed è per questo che accettano quello che
per noi rimane incomprensibile cioè di morire. Sanno perfettamente che dalle
loro missioni terroristiche non si torna tra i vivi. Ma quali sono esattamente
le loro caratteristiche di personalità?. C’è un fattore che li accomuna tutti
:l’ odio per la società occidentale. Un odio che si è alimentato di un vissuto
di esclusione, avvertito come qualcosa di immodificabile, che ha prodotto un sentimento d’inferiorità irresarcibile, sfociato nell’ aggressività e
nell’odio.Molti imboccano la via della delinquenza e della criminalità ma
spesso questo non basta. L’esperienza del carcere rinforza l’odio per la
società e l’avvicinarsi alle forme radicali dell’Islam. Infatti non ci sono molti riguardi, in
carcere, per gli internati di fede musulmana :mancano gli imam ed è impossibile
praticare la preghiera collettiva del venerdì, il che facilita l’adesione al
salafismo, una corrente integralista islamica che segna una linea di
demarcazione netta fra i credenti tiepidi, non osservanti delle regole, e “Veri
musulmani”.Il carcere dunque facilita la deriva verso l’islamismo integralista
in chi vive già una condizione di isolamento e di marginalizzazione. Per molti,
quelli più sofferenti , c’è bisogno di una forma di autoaffermazione forte che
ribalti il loro stato d’inferiorità. È facile,a questo punto, avviarsi verso la
strada della guerra santa che annulla la sofferenza e li trasforma in grandi eroi, difensori della fede. Non
sono più gli anonimi emarginati, che non contano nulla e che sopravvivano con piccoli
atti criminali.Sono diventati protagonisti, eroi che difendono la fede sacra
contro la società occidentale empia e colpevole, che deve essere eliminata a
costo della vita stessa .Il momento finale e conclusivo del percorso del
giovane jihdaista è quello del viaggio iniziatico verso un paese del medio
oriente in cui si combatte la guerra santa:
qui imparano a utilizzare le armi, a diventare spietati, a giustiziare freddamente
un ostaggio, a mettere da parte qualsiasi sensibilità empatica ed etica. A
questo punto la costruzione dello jihadista eroe è completata:pronto a tutto, a
uccidere come a morire. Accetterà di buon grado le missioni, farà di tutto per
essere visto e riconosciuto soprattutto dai media. Sono proprio i media,
infatti, a consacrarli come tali, come eroi, consentendo il ribaltamento di
quel vissuto originario di subalternità
da cui tutto è partito. I bianchi da dominanti ed escludenti sono diventati
preda della morte e del terrore. E questo dovrebbe far riflettere su come si debba
usare la comunicazione mediale nei
confronti dei protagonisti del terrorismo. Parlarne, dedicare loro pagine,
pubblicarne le foto (come si è verificato in questi giorni), li rende ancora più forti ed è proprio quello che
vogliono. Ma c’è un secondo ambito di reclutamento per la jihad sviluppatosi
dal 2013 in poi e che ci inquieta. Si tratta di ragazzi, appartenenti a
famiglie borghesi, che vanno alla ricerca di un senso nella vita,
ragazzi che costituiscono una buona fetta di reclutati al servizio dell’ISIS .Tra
questi ragazzi che vanno alla ricerca di emozioni forti e della costruzione di
un’identità attraverso azioni che siano
visibili e dirompenti. Ci sono anche ragazze annoiate di una vita superficiale,
magari alla ricerca di rapporti più autentici e sinceri con ragazzi e uomini
forti, diversi dai coetanei immaturi. Non ci troviamo dinanzi ad una riedizione
delle tematiche psicologiche giovanili che animarono il ’68.Lì i giovani si ribellavano ad una società
eccessivamente autoritaria, conformista,che negava il piacere e il desiderio.
Si trattava di una protesta che si dilatava anche in un afflato etico di
denuncia delle contraddizioni del capitalismo, e che si prolungava, anche
allora,nel viaggio in oriente ma alla ricerca
di una rivoluzione interiore. Tutt’altra storia è, oggi, quella di giovani
borghesi che aderiscono alla jihad: ragazzi vissuti in ambienti familiari
caratterizzati dalla dispersione dell’autorevolezza, ambienti familiari che
hanno abdicato alla funzione genitoriale
del dare regole e punti di riferimento.La Jihad offre a questi giovani da un
lato l’eccitazione esaltante della
guerra, permettendo una illusoria crescita da adolescente ad adulto
attraverso la guerra e la morte, dall’altro
il contenimento e la sicurezza di regole dure e spietate. Il richiamo della guerra santa va a colmare il vuoto della politica latitante e
superficiale, incapace di interpretare i
fenomeni, di portare l’attenzione su questioni sociali date per scontate e non
immediatamente evidenti nella loro complessità, che non è stata capace di
operare una reale integrazione delle minoranze, l’
insipienza dei sistemi educativi,
scolastici e familiari, che non hanno saputo dare le risposte giuste ai bisogni
d’identità e d’impegno politico -sociale
dei giovani.
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