VI CONVEGNO CASSINATE
(Scuola di
Alta Formazione in Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze)
“La vita delle menti”
1-2 Ottobre
2021
Abstracts
Le basi evolutive dell’altruismo
Ines Adornetti
Dipartimento di Filosofia, Comunicazione
e Spettacolo, Università Rome Tre
Gli esseri umani sono per natura
cooperativi e altruisti verso i propri simili o tendono, al contrario, ad
essere naturalmente egoisti e individualisti? Molti pensatori hanno affrontato
questi interrogativi provando a fornire delle risposte. Le più famose tra
queste sono senza dubbio quelle proposte dai filosofi Hobbes e Rousseau.
Secondo il primo, gli esseri umani sono naturalmente egoisti e sono le
istituzioni sociali che successivamente insegnano loro a essere migliori.
Diametralmente opposta è l’opinione di Rousseau: a suo avviso allo stato di
natura gli esseri umani sono solidali e vengono poi corrotti dalla società. Che
ne è di questo dibattito – naturalmente altruisti vs naturalmente
egoisti – nella riflessione contemporanea? Oggi non solo la filosofia, ma anche
le scienze empiriche si occupano di indagare la questione attraverso nuovi
strumenti e metodologie. In particolare, nell’ambito delle scienze cognitive
evoluzionistiche l’ipotesi del cervello sociale ha dato grande impulso
al dibattito. Non vi è, però, al momento
una soluzione definitiva alla disputa tra le due prospettive in campo.
L’ipotesi del cervello sociale, in effetti, è stata utilizzata sia per esaltare
gli aspetti cooperativi-altruistici dell’essere umano, sia per sottolinearne il
carattere competitivo-egoistico. Quello che emerge con chiarezza è che non è
possibile aderire a una delle due posizioni in modo semplicistico e unilaterale
- probabilmente entrambe contengono elementi di verità – e che sono necessarie
prospettive più articolate. A titolo di esempio, in questa relazione verrà
presentato il modello dello psicologo evoluzionista Michael Tomasello che
mostra quanto l’adesione alla prospettiva della cooperazione richieda il
riferimento a un ricco apparo tanto empirico quanto concettuale.
Gli effetti della
riduzione del contatto fisico positivo causata dalla pandemia di COVID-19 sulla
salute mentale
Francesco
Bruno
Centro Regionale di Neurogenetica (CRN) – ASP
di Catanzaro
La Pandemia della Malattia da Nuovo
Coronavirus 2019 (COVID-19) provocata dal virus SARS-CoV-2, è iniziata a
dicembre 2019 nella città di Wuhan e successivamente si è diffusa in più di 210
Paesi del mondo, rappresentando così un’emergenza per la sanità pubblica
internazionale. Al fine di contenere la diffusione dei contagi, nella maggior
parte dei Paesi, sono state adottate diverse misure, tra le quali rientra il distanziamento
fisico. Nonostante rappresenti una misura indispensabile per contenere la
diffusione del COVID-19, il distanziamento fisico limita la capacità delle
persone di mantenere connessioni affettive e sociali e, di conseguenza,
potrebbe avere conseguenze drammatiche sulla salute mentale. In effetti,
diversi studi hanno dimostrato che la Pandemia di COVID-19 è associata ad un
incremento significativo di ansia, depressione, stress e sintomi da stress
post-traumatico (PTSS). Durante la relazione verranno presentati i risultati di
una ricerca svolta su oltre 3000 soggetti volta ad investigare gli effetti
della riduzione del contatto fisico positivo causata dalla pandemia di COVID-19
sulla salute mentale degli italiani.
Gli
abbracci ai tempi delle Neuroscienze
Sonia Canterini
Facoltà di Psicologia e Medicina, Università di Roma-La
Sapienza
“Quanti
significati sono celati dietro un abbraccio?
Che cos’è un abbraccio se non comunicare, condividere
e infondere qualcosa di sé ad un’altra persona?
Un abbraccio è esprimere la propria esistenza
a chi ci sta accanto,
qualsiasi cosa accada,
nella gioia e nel dolore.
Pablo Neruda
Come ben espresso da
Pablo Neruda, l’atto di abbracciare non serve solo come semplice gesto di
saluto ma è soprattutto utilizzato per esprimere, in maniera diretta e
istintiva, emozioni e sostegno sociale. Gli abbracci, che oggigiorno diamo e
riceviamo sempre meno, scatenano in noi una serie di benefici sia fisici che
emotivi, favorendo l’attivazione di aree cerebrali coinvolte
nell’elaborazione delle informazioni di tipo sociale ed emotivo, quali: la
corteccia insulare, l’amigdala, l’ippocampo, il talamo e l’ipotalamo, la
corteccia cingolata e la corteccia orbitofrontale. Gli abbracci fanno bene
perché influenzano positivamente il nostro sistema neuroendocrino, stimolando
il rilascio di ossitocina ed endorfine. Il neurormone ossitocina, conosciuto
anche come l’ormone dell’amore, insieme alle endorfine, è in grado di ridurre i
conflitti, aumentare l’attaccamento e il legame fra le persone, , migliorare il
riconoscimento delle emozioni e la memoria sociale, mitigare lo stress e
influenzare positivamente il sistema cardiovascolare, il sistema immunitario,
rendendoci più sinceri ed empatici.
In ambito clinico
alcune patologie, come l’aptofobia e i disturbi dello spettro autistico,
inficiano la possibilità di stabilire un contatto fisico con le altre persone. Studi recenti
affermano che nei soggetti autistici, la riscontrata alterata sensibilità agli
stimoli tattili è dipendente da una ridotta connettività della corteccia
somatosensoriale e da una forte attivazione dell’amigdala, una specifica
regione del cervello adibita all’elaborazione delle risposte di paura. Nuove tecnologie, come l’Hug Over a Distance, l’Huggy
Pajama e l’Hugvie, aprono interessanti
scenari in grado di trasmettere la sensazione di un abbraccio anche a
distanza di migliaia di chilometri, offrendoci la possibilità di esplorare
nuove ipotesi di trattamento per alcune patologie quali il disturbo dello
spettro autistico.
Evoluzione animale e umana. Utilità
e limiti del principio di continuità
Marco
Celentano
Dipartimento di Lettere
e Filosofia, Università degli Studi di Cassino
Tra
il 1871 e il 1872, Darwin, pubblicando L’origine dell’uomo e L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, traeva le conseguenze delle premesse poste
nel 1859 con L’origine delle specie e
al contempo rinnovava la sua teoria della selezione naturale tenendo
maggiormente in conto gli effetti della selezione sociale nell’evoluzione
animale e umana. Queste due opere contenevano il più coerente superamento di
ogni separazione metafisica tra l’uomo e gli altri animali e il più rigoroso
tentativo di spiegare la genesi delle capacità cognitive umane con un approccio
genealogico, storico e materialistico fino ad allora proposti. Tale superamento
rientra tra i presupposti dell’etologia contemporanea, e ne rappresenta
un’irrinunciabile conquista teorica e critica. Il “principio di continuità” tra
l’uomo e i suoi antenati animali e di prossimità tra l’uomo e gli altri animali
“superiori”, che ne deriva, viene però
interpretato, secondo il relatore, in modo sviante e inadeguato, nonché
contrario al pensiero effettivo di Darwin, quando se ne fa discendere l’ipotesi
che i comportamenti sociali, i precetti etici, gli assetti istituzionali, le
forme di conoscenza e le preferenze
umane siano il frutto di una selezione naturale del “più adatto”. La selezione
sociale umana, infatti, come già suggerì Konrad Lorenz, da millenni, e ancor
più oggi nell’epoca dei grandi condizionamenti mediatici, “premia” in molti
casi tendenze comportamentali come “l’arrendevolezza
all’indottrinamento”, la sottomissione ai poteri dominanti, la veicolazione
acritica dei modelli comportamentali da
questi promossi, che risultano in realtà dannosi,
non vantaggiosi, per chi ne è portatore. I patterns comportamentali
dominanti nell’umanità attuale vanno paragonati, sotto questo profilo, più a
quelli degli animali domesticati che a quelli degli animali selvatici o dei
nostri parenti e predecessori ominidi.
Mente
e linguaggio: il confine tra esseri umani e animali non umani
Francesco
Ferretti
Dipartimento di Filosofia, Comunicazione
e Spettacolo, Università Rome Tre
Secondo l’opinione
largamente prevalente nella riflessione contemporanea, il linguaggio è la
caratteristica essenziale della natura umana, ciò che rende gli umani unici e
imparagonabili con il resto del mondo animale. Alla base di una concezione di
questo tipo è la tesi, cara alla tradizione cartesiana, della «differenza
qualitativa» tra gli umani e gli altri esseri viventi. Secondo tale tradizione,
esplicitamente ripresa nei modelli standard della scienza cognitiva, il
linguaggio umano risponde a principi «del tutto diversi» da quelli in gioco
nella comunicazione animale al punto da rendere vana qualsiasi forma di
confronto. Contro la prospettiva cartesiana, in questa relazione si fa appello
a una diversa tradizione di pensiero: assumendo che le differenze tra gli umani
e gli altri animali debbano essere interpretate in termini di grado e mai di
qualità, l’obiettivo di questa relazione è proporre un modello del linguaggio
in accordo con i principi dell’evoluzione darwiniana e alla base di una
prospettiva naturalisticamente fondata della natura umana. Un modo per
considerare il linguaggio umano in continuità con la comunicazione animale è
offerto dalla discussione delle ricerche su alcune scimmie culturalizzate –
scimpanzé e bonobo – allevate in ambienti umani e sottoposte a un tipo di
comunicazione «artificiale» interspecifica.
Il risultato principale di queste ricerche, in effetti, è che le grandi
scimmie sanno fare cose col linguaggio che le avvicinano molto a ciò che con il
linguaggio sanno fare gli esseri umani.
Il luogo dell’etica nel Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein
Fausto Pellecchia
Università degli Studi di Cassino
L’oggetto
di queste mie impertinenti o intempestive chiose di lettura è lo statuto dei
giudizi di valore -e il significato della loro de-localizzazione sui bordi
dello spazio linguistico- nella filosofia di Wittgenstein dal Tractatus logico-philosophicus (1922)
alla Conferenza sull’etica (1929). Il
punto di partenza, secondo il suggerimento di Ingeborg Bachmann [Il dicibile e l’indicibile, Milano,
Adelphi, 1998, pp.45-79] è l’interpretazione corretta del celeberrimo enunciato
7, che conclude il Tractatus, tanto
spesso evocato quanto altresì frequentemente travisato nella letteratura
secondaria.
Coerentemente
con quanto asserito nel Tractatus,
nella Conferenza il tentativo di
esprimere esperienze di “valore assoluto” (il Bene, il Bello, il Mistico) è
condannato al nonsenso, sebbene questo nonsenso documenti la tendenza,
antropologicamente costitutiva e non-sradicabile, ad “avventarsi contro i
limiti del linguaggio”. Questa insensatezza essenziale ed inemendabile
contraddistingue l’uso etico-religioso ed estetico del linguaggio rispetto
all’accidentale insensatezza sia delle pseudo-proposizioni filosofiche, sia
delle “chiacchiere” di una pretesa scienza del Valore (etico ed estetico) che
inavvertitamente travalicano i limiti dello spazio logico.
In generale, linguaggio insensato è
propriamente uno pseudolinguaggio che, in quanto costituito da segni apparenti,
estranei al simbolismo che ne rende possibile l’applicazione al mondo, si
sottrare alla dicotomia vero/falso su cui si fonda la teoria della
raffigurazione. Al contrario, l’uso etico della parola si rivela come
intenzionalmente – o essenzialmente – insensato, perché solo così può mettere
in luce la propria inapplicabilità al mondo, per trasmettere implicitamente –
in un tacito autoriferimento- il
sentimento del parlante in relazione ad una sua specifica esperienza.
In questa tendenza autoreferenziale che si
volge esclusivamente verso il sito atopico del parlante in quanto esso è “non l’uomo, non il corpo umano, o
l'anima umana di cui si occupa la psicologia, ma il soggetto metafisico, che non è una parte, ma il limite del mondo” (TLP, 5.641), consiste la peculiare
insensatezza del linguaggio etico-religioso (ed estetico). Perciò, il carattere
essenzialmente “espressivo” del giudizio di valore, distanziandosi da ogni
inclinazione soggettiva per l’emotivismo o il non-cognitivismo nelle questioni
morali, si propone piuttosto come un’esibizione, via negationis, dell’elemento etico immanente alla stessa
riflessione critica sul linguaggio e alla “retta visione del mondo”. Di qui
l’affinità, nell’uso degli attributi etici ed estetici, tra nonsenso e gesto secondo un’idea non-comunicativa ed espressiva del linguaggio,
che Wittgenstein svilupperà nell’arco degli anni ’30 del suo itinerario.
Infatti, l’insensatezza come esperienza del limite del linguaggio, su cui si
concentrano gli enunciati finali del Tractatus, mette capo, nella Conferenza
del 1929, sulla ineliminabile piega metaforica, impressa nel conio delle
“metafore assolute”, irriducibili al registro empirico-descrittivo, che
costituiscono il sigillo del linguaggio etico-religioso.
Nel cervello di
un'auto: vetture a guida autonoma e dilemmi morali
Pietro Perconti
Dipartimento di scienze
cognitive, Università di Messina
A fronte di innegabili
vantaggi sociali, soprattutto in termini di efficienza e di sicurezza, i
sistemi di guida autonoma sollevano numerosi problemi di natura tecnologica e
di organizzazione sociale. Alcuni tra i problemi principali, tuttavia,
sollevati da tali sistemi automatici riguardano la sfera etica. Il punto è che
i veicoli dotati di guida autonoma sembrano avere una loro psicologia morale,
sia che i progettisti ce l’abbiano inserita apposta tra gli algoritmi di
controllo sia che abbiano tralasciato di affrontare il problema. I filosofi
hanno un ruolo sociale significativo da svolgere in questa congiuntura. Si
tratta, innanzi tutto, di esplicitare la psicologia morale celata nei
dispositivi. Ma si tratta ugualmente di contribuire a dotare esplicitamente
tali dispositivi dell’etica che ci sembra desiderabile.
Per affrontare tali
questioni nel corso del mio intervento proporrò anche l’esito di un lavoro
sperimentale che ho condotto con alcuni colleghi e che è basato sull’uso della
realtà virtuale e della costruzione di diversi scenari in cui saggiare le
nostre intuizioni morali su come dovrebbe comportarsi una macchina in contesti
morali sensibili. In particolare, abbiamo creato una “versione automobilistica”
del celebre dilemma del trolley - un noto esperimento mentale usato
nell’analisi etica più recente - per confrontare le reazioni intuitive dei
guidatori di fronte a un dilemma morale con i loro stessi giudizi morali
ponderati. L’esito dell’esperimento sembra di una qualche utilità per i
progettisti dei sistemi di guida autonoma che regoleranno le automobili del prossimo
futuro.
La protocooperazione tra polipi di Aurelia
Jessica Vettese
Università
Politecnica delle Marche
Rimasta
a lungo in secondo piano nello studio dei processi ecologici, la cooperazione
è, negli ultimi decenni, al centro dell’attenzione di numerosi scienziati e
filosofi di tutto il mondo.
Anche
se le interazioni negative – quali la predazione, il parassitismo, la
competizione – sono fenomeni importanti all’interno delle comunità e
contribuiscono in maniera sostanziale al modellamento dell’ecosistema, le
interazioni positive, tra cui la cooperazione, sono alla base di tutti i
processi biologici, dalla comunicazione tra le cellule alle dinamiche che
regolano le società umane.
Tra
le varie forme di cooperazione, la protocooperazione è definita come
“un’interazione tra organismi in cui entrambi traggono benefici, ma nessuno dei
due dipende dalla relazione.” (Allaby, 2010). In altre parole,
ogni organismo che partecipa all’azione conduce una vita indipendente, ma
occasionalmente può cooperare con altri organismi per avere un beneficio
maggiore.
Uno degli ultimi casi
di protocooperazione è stato osservato nel 2018 nel Mediterraneo, a opera del
corallo Astroides calycularis, i cui
polipi cooperano per mangiare meduse dieci volte più grandi di loro. Per
studiare questo fenomeno in altri organismi, polipi del genere Aurelia sono stati nutriti in
laboratorio con prede di dimensioni adeguate per non essere predate da un
singolo individuo, ma che si sono rivelate ottimali per la caccia in gruppo,
consentendo lo sviluppo di interessanti ipotesi sui comportamenti
protocooperativi.
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