Sempre più,
ormai, anche in Italia, si fa ricorso a prove di indagine cerebrale in ambito
penale. La sentenza Palleschi è una delle prime, se non la prima, nella nostra
zona. Palleschi, l’omicida della professoressa Gilberta Palleschi, presenta alla Tac e alla elettroencefalografia
una notevole compromissione del lobo frontale, marcata nella zona mesiale destra. La ricerca ormai da
molto tempo ha evidenziato come il cervello frontale, deputato a quei
processi mentali ed operazioni nobili che appartengono solo all’uomo, ha anche
la funzione di inibire l’ipotalamo e l’amigdala, strutture sottocorticali,
responsabili dell’aggressività e della paura. Se il frontale o le connessioni
con le strutture sottostanti sono danneggiate da un trauma o da una malattia
organica la persona diventa incapace di controllare le sue reazioni emotive. In
letteratura rimane famoso il caso di Phineas Cage, l’operaio (studiato nel 148)
che, mentre faceva esplodere una carica, ebbe il cranio perforato da una barra
di ferro di un metro e mezzo di lunghezza e di 6kg di peso. La barra penetrò
sotto l’occhio sinistro, attraversò il lobo frontale sinistro uscendo dalla
parte superiore della testa:aveva distrutto una parte di cranio e di lobo
frontale sinistro. Cage sopravvisse e riuscì a condurre una vita “abbastanza”
normale, ma la sua personalità era stata profondamente trasformata: era
diventato maleducato, impulsivo,ostinato. Finì i suoi giorni come fenomeno da
baraccone in un circo, a mostrare, in cambio di denaro, il buco che aveva in
testa. Il caso è stato ripreso recentemente dal neuroscienziato Antono Damasio
per dimostrare appunto come il frontale
abbia un ruolo determinante nel controllo delle emozioni. Nel caso del
Palleschi la compromissione riguardarebbe anche il frontale mesiale destro,
zona che ha un ruolo nella capacità decisionale, nelle emozioni sociali
(compassione, senso di colpa), ed ha una forte concentrazione di recettori
della serotonina che oltre ad altre funzioni ha anche quella di facilitare la
cooperazione. E’ evidente che il Palleschi avrà una sensibile riduzione di pena,
considerando che presenta una significativa compromissione proprio di quelle
zone cerebrali responsabili delle funzioni psichice più specificamente umane.
Il caso Palleschi
(e non è ovviamente il primo considerando che in Italia la prima sentenzaa a
tener conto delle evidenze portate dalle tecniche d’indagine cerebrale, si è
avuta nel 2009 a Trieste) ripropone una serie di questioni, non nuove, che
riguardano una pluralità di discipline: dal diritto, alla filosofia morale,alla
psichiatria alla psicologia, alla genetica, alle neuroscienze, alla neuroetica. La prima, più complessa e di vecchia data: “siamo
giustificati a ritenere qualcuno moralmente e legalmente responsabile dei
propri atti? “,“Siamo liberi cioè dotati di libero arbitrio?” Questioni di non
poco conto, soprattutto l’ultima intorno alla quale, da sempre si è sviluppata
parte della riflessione filosofica. Ora, le scienze cognitive e le neuroscienze
ci restituiscono una visione del soggetto in contraddizione con la “psicologia
del senso comune”,secondo la quale la
persona è autocosciente, libera e razionale, caratterizzata da un’unitarietà
dell’Io e capace di autodeterminarsi.La persona che viene descritta dalle
scienze cognitive è invece fatta di processi automatici inconsci, dotata di scarsa
autonomia, priva di un “homunculus cerebrale” che diriga le
fila delle nostre azioni. La questione del libero arbitrio è lontana dal poter essere sciolta,in quanto
strettamente collegata all’altro tema
difficile (il tema “hard” delle neuroscienze) quello della coscienza, anche se grandi passi
si stanno facendo in questo senso grazie anche ad un neuroscienziato italiano,
Giulio Tonioni, che ha elaborato una delle teorie più attendibili e attuali.
Ma torniamo al
diritto e al processo. Il codice civile prevede una capacità di agire, che si acquista con la
maggiore età, e che può essere considerata l’espressione di
quello che in psicologia delle decisioni è noto come pensiero “normativo”
(spesso usato in economia o matematica), l’assunzione che l'essere umano sia il
modello di decisore razionale per eccellenza. Di fatto il diritto e il codice civile e penale
presuppongono quel libero arbitrio che la psicologia e le neuroscienze stanno
sempre più mettendo in discussione. Le nuove scoperte sul nostro funzionamento
rimettono in discussione categorie giuridiche come volontà e responsabilità, è
vero. Ma è pur vero che in Germania gli studi di Libet sul “potenziale di
prontezza” ( esperimenti ben noti relativi al fatto che diventiamo consapevoli
delle nostre scelte solo dopo averle fatte) sono stati ritenuti insufficienti
per modificare la categoria giuridica della volontà e della responsabilità. Ed
è pur vero che il concetto di responsabilità, che è un “valore”, è un prodotto
culturale e, in un’ottica darwinista, ha un significato evoluzionistico: è ciò
che gli uomini, nel corso del tempo, si sono inventato per poter sopravvivere e
per la stabilità delle comunità. Cosa
sarebbe di noi e della nostra società senza
che nessuno si sentisse responsabile per le sue azioni e senza che dovesse
incorrere in alcuna pena in caso di infrazione di regole e leggi? E’ evidente
che norma,responsabilita, colpa e pena
sono strettamente connessi ed inscindibili, categorie che dobbiamo tenerci care e strette.
Allora cosa
cambiano le prove di neuroimaging portate in tribunale?. In linea di principio
nulla, per il semplice fatto che già da sempre prove psicodiagnostiche, di alta
attendibilità, incrociate ai risultati dei colloqui clinici, sono state utilizzate
per la riduzione della colpa e della pena dei soggetti criminali o addirittura
per arrivare al giudizio (rarissimo) di incapacità di intendere e di volere. Il
che significava comunque, scontare una pena in luoghi speciali ed idonei. Le
prove di neuroimaging, semplicemente, ci aiutano a capire di più e, magari,
venendo fatte passare quasi come una “fotografia” del cervello possono avere un maggior impatto e
apparire più attendibili di un reattivo mentale. Di fatto esse diventano
determinanti solo quando vaste zone cerebrali siano organicamente compromesse,
e comunque vanno sempre integrate con le altre prove tradizionali. A meno che
non si voglia essere, come dice Daniel Dennett, “avidamente riduzionisti”!
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