L’Inchiesta
Martedì 15/1/2019
Il fattaccio di via
Zamosh e le inadeguatezze del sistema scolastico italiano.
Si pensa sempre che “crimini e misfatti” accadano altrove e che il
paese in cui viviamo ne sia indenne, ne sia graziato. Chissà perché! Eppure
questo paese non è diverso dalle tante piccole cittadine di provincia,
sonnolente e apatiche, un paese che non brilla per sensibilità e cultura
autentica (molti ne parlano e se ne ammantano ignorando quanto sia impegnativo
usare la parola cultura!) Che paese è quello in cui non esiste un solo cinema?
Che paese è quello in cui i giovani non trovano di meglio da fare che affollare,
fino a tarda sera, i numerosissimi bar, con tutto quello che significa in
termini di sicurezza e salute. Che paese è quello in cui i livelli di stress
dei cittadini è alto per un traffico mal gestito e per le musiche ad alto
volume che imperversano fino a tarda notte ed impediscono di dormire? Che paese
è quello in cui la cultura, quella
“pesante”, è affidata alle iniziative di pochi intellettuali volenterosi che ci
provano a dissodare e ad umanizzare il territorio, sostenuti da alcuni
imprenditori illuminati?
Il fatto di via Zamosh non mi
sconvolge né mi meraviglia. Certo, mi addolora per i piccoli che hanno vissuto
una esperienza negativa, i cui effetti dovranno essere valutati, ma, attenzione,
non drammatizziamo. Non parliamo di “psicosi” a Cassino, per favore! Non ne
facciamo un caso che potrebbe danneggiare ulteriormente i minori. Non è stato
bello e buono prelevare una docente proprio dinanzi alla scuola! Come ha agito
questa procedura sulle menti dei bambini presenti? Non diamo la stura alla
reattività e conserviamo la ragionevolezza.
La reazione dell’ambiente, della famiglia, degli adulti (il modo cioè
in cui viene recepito e vissuto un
evento traumatico o comunque difficile che colpisce un bambino), agisce fortemente
sul vissuto stesso del bambino rischiando di amplificare l’evento, di renderlo
ancora più dannoso. Perciò meno clamore e meno toni incandescenti che non
servono e danneggiano tutti. Teniamo presente che quando parliamo di violenza
contro i minori stiamo usando, in termini tecnici, una categoria molto vasta
che evoca forme di violenza inquietanti (abuso sessuale, violenza fisica) e,
quindi, si spiega anche la reattività delle persone dinanzi alla notizia diffusa dalla stampa. Ma violenza contro i
minori significa anche maltrattamenti, discuria (trascuratezza per la salute), eccedenza anche involontaria di messaggi
sessuali, risposte inadeguate ai bisogni fondamentali del minore (di sicurezza,
di stabilità, di buona relazione, ecc..). Perciò molti, anche alcuni genitori
potrebbero essere accusati di violenza contro i figli. Teniamo anche presente
che a volte l’informazione, per un meccanismo insito nella comunicazione,
rischia di distorcere la reale entità dei fatti. E stiamo anche attenti alle
indagini: può essere inadeguato interrogare i bambini i quali, nel nostro caso,
a quanto pare, continuano, sembrerebbe tranquillamente, a frequentare la scuola
nella medesima classe in cui sono arrivati nuovi docenti. Il rischio è quello, attraverso la
rievocazione, di rinforzare l’evento (e
il vissuto relativo) e di indurre false risposte. E’ un rischio che vale la
pena di correre solo in situazioni molto gravi. Non dimentichiamo il caso
Rignano!
Ma mi chiedo anche, è legittimo, quanto non ci sia, nella scuola, un
sommerso di “violenza”, di risposte inadeguate ed inefficienti ( il non dare
ciò che si dovrebbe dare è già di per sé una violenza, ), di difficoltà relazionali,
di comportamenti reattivi nei confronti di allievi definiti “difficili”. (Non
esistono ragazzi difficili ma relazioni difficili in cui sono parimenti
implicati docenti e allievi.) Mi meraviglia sempre, infatti, quando si scoprono
casi di “violenza” a scuola, che a svelarli debbano essere poliziotti e
carabinieri. E’ possibile che nella scuola, che è una comunità, dove si lavora
fianco a fianco, nessuno si accorga mai di nulla, è possibile che nessun
docente, per una falsa concezione della lealtà, denunci mai un collega? Ma l’unica vera lealtà
è quella che si deve alla propria professione e alla istituzione per cui si
lavora. A scuola vige, spesso, l’omertà: si preferisce tacere per quieto
vivere, per non fare sapere all’esterno e non far fare brutta figura alla
propria scuola.
Non mettiamo alla gogna le due docenti, le quali, sicuramente, si sono
rese responsabili di comportamenti, inadeguati, inaccettabili, dannosi per gli
allievi, per i quali vanno sottoposte
all’iter del caso. Nei loro confronti provo una umana pietas: per aver
dato luogo a tali manifestazioni comportamentali, assolutamente incompatibili
con il ruolo ricoperto, sono già state, presumo, sufficientemente punite e
danneggiate dalla sorte, dall’educazione ricevuta e dall’esperienze di vita. La
violenza agita contro gli altri si ritorce contro se stessi perché comporta
sempre una diminuzione della propria umanità. Sicuramente si tratta di persone
che sono in sofferenza psicologica e che trovano difficoltà, in questa fase della loro vita almeno, a
ricoprire il ruolo di docente. Quella
del docente, ci dicono alcune ricerche, è una professione, come tutte quelle
relazionali, soggetta a forti quote di stress e a rischio di burnout. Lo
stress, comunque prodotto, sia dal particolare impegno lavorativo sia da eventi
traumatici della vita (un lutto, una malattia,) genera disregolazione affettiva
cioè la difficoltà a gestire le proprie emozioni e la propria reattività
disturbando fortemente la vita di relazione a qualsiasi livello.
C’è da fare, magari, qualche altra considerazione
sul sistema scolastico italiano, sui meccanismi (o i mancati meccanismi) di
formazione e reclutamente degli insegnanti; sugli standard di valutazione (o mancata
valutazione) dei requisiti di accesso all’insegnamento. Per altre professioni si richiede almeno un
test attitudinale ed un monitoraggio costante delle abilità e della efficienza.
Nelle aziende, anche quelle medio-piccole, si valuta lo Stress Lavoro
Correlato. I docenti vengono, invece, lasciati soli, in un momento in cui
insegnare è diventato più complesso e i carichi di lavoro più pesanti e la rete
della burocrazia una sorte di vortice. Non c’è valutazione dello stress né
attenzione per il loro benessere psichico, che dovrebbe essere tutelato in considerazione proprio della
delicatezza del lavoro che essi svolgono.
Diciamolo onestamente: la scuola è stato il più grosso ufficio di
collocamento italiano! Si provi a chiedere ad un ragazzo dell’ultimo anno di
scuola secondaria che cosa vorrà fare da grande. Nessuno risponderà: “Voglio
fare l’insegnante!”. Allora da dove nasce la motivazione dei molti che premono
per inserirsi nel mondo della scuola? Nella maggior parte dei casi, quando non
si riesce a fare altro, si ripiega sulla scuola. Sono pochi i docenti che fanno
una scelta consapevole, animati da passione, da entusiasmo, dalla certezza di
fare un lavoro speciale e di eccellenza. Una volta chi si avvicinava alla
scuola lo faceva con l’orgoglio della
prospettiva di un lavoro intellettuale ed emancipante. Erano tempi in cui si
offrì, tra l’altro, attraverso l’approdo all’insegnamento, massicciamente
l’apertura delle donne al lavoro intellettuale. Le donne docenti hanno avuto un
ruolo significativo e fondamentale per l’emancipazione femminile.
Se mancano motivazione e passione per il lavoro che si svolge lo stress
aumenta. Insegnare non è un mestiere come gli altri. Il docente non trasmette
solo contenuti ma plasma le menti e le personalità, induce e costruisce modelli
relazionali che incideranno fortemente sulla vita affettiva emotiva e
relazionale degli adulti di domani. Se lo psicoanalista ricostruisce le menti
l’insegnante, insieme, alla famiglia le crea.
I bambini, soprattutto nella prima infanzia, sono in forte sviluppo cerebrale e
mentale e il lavoro con loro vuole una particolare cura ed attenzione. Le
neuroscienze ci dicono che i primi tre anni di vita plasmano il cervello: i
neuroni formano dalle 700 alle 1000 sinapsi al minuto. L’80 per cento del
cervello è già formato.
Per insegnare non bastano i saperi: si può essere geniali e nello
stesso tempo essere docenti incapaci. Per stare in cattedra occorrono
equilibrio, capacità di regolare le proprie emozioni e gestire la propria
reattività nelle situazioni difficili, abilità relazionali. Oggi si parla molto
di buona relazione ma sfugge quanto
questo costrutto sia complesso e quante componenti e sottodimensioni implichi.
Chi testa queste abilità, imprescindibili per la professione di insegnante, al
momento dell’entrata nella scuola? Le si danno per scontate. Ma queste abilità
non si possiedono in natura. Ne possediamo la “disposizione” ma questa deve essere allevata, sviluppata e
rinforzata nel tempo per tradursi in attitudini concrete. Tutto questo non si
fa, anzi neanche si conosce. Eppure esistono protocolli di formazione validi
per il loro sviluppo, come esistono protocolli, specifici per i docenti, volti
alla prevenzione e alla riduzione dello stress e del burnout (Mindfulness). Ma
tutto questo non penetra nelle scuole, dove si preferisce rivolgersi a corsi di
aggiornamento obsoleti ed inutili, magari online (dov’è la relazione che è
fondamentale per la formazione?), rincorrere qualche tecnica o metodologia didattica
miracolosa, importata d’oltreoceano dove,
magari, già c’è una linea in controtendenza verso la stessa. Appunto la tecnica
piuttosto che la formazione. Nelle scuole si fanno “tante cose” diceva una
dirigente qualche settimana fa. Appunto, è quel “tanto” il problema, quel
“tanto” che diventa un “troppo” che copre la domanda “che cosa fare? Che cosa è
utile e significativo davvero fare?”
Maria Felice Pacitto (psicologa,
psicoterapeuta, filosofa della mente)
L’Inchiesta
Martedì 15/1/2019
Il fattaccio di via
Zamosh e le inadeguatezze del sistema scolastico italiano.
Si pensa sempre che “crimini e misfatti” accadano altrove e che il
paese in cui viviamo ne sia indenne, ne sia graziato. Chissà perché! Eppure
questo paese non è diverso dalle tante piccole cittadine di provincia,
sonnolente e apatiche, un paese che non brilla per sensibilità e cultura
autentica (molti ne parlano e se ne ammantano ignorando quanto sia impegnativo
usare la parola cultura!) Che paese è quello in cui non esiste un solo cinema?
Che paese è quello in cui i giovani non trovano di meglio da fare che affollare,
fino a tarda sera, i numerosissimi bar, con tutto quello che significa in
termini di sicurezza e salute. Che paese è quello in cui i livelli di stress
dei cittadini è alto per un traffico mal gestito e per le musiche ad alto
volume che imperversano fino a tarda notte ed impediscono di dormire? Che paese
è quello in cui la cultura, quella
“pesante”, è affidata alle iniziative di pochi intellettuali volenterosi che ci
provano a dissodare e ad umanizzare il territorio, sostenuti da alcuni
imprenditori illuminati?
Il fatto di via Zamosh non mi
sconvolge né mi meraviglia. Certo, mi addolora per i piccoli che hanno vissuto
una esperienza negativa, i cui effetti dovranno essere valutati, ma, attenzione,
non drammatizziamo. Non parliamo di “psicosi” a Cassino, per favore! Non ne
facciamo un caso che potrebbe danneggiare ulteriormente i minori. Non è stato
bello e buono prelevare una docente proprio dinanzi alla scuola! Come ha agito
questa procedura sulle menti dei bambini presenti? Non diamo la stura alla
reattività e conserviamo la ragionevolezza.
La reazione dell’ambiente, della famiglia, degli adulti (il modo cioè
in cui viene recepito e vissuto un
evento traumatico o comunque difficile che colpisce un bambino), agisce fortemente
sul vissuto stesso del bambino rischiando di amplificare l’evento, di renderlo
ancora più dannoso. Perciò meno clamore e meno toni incandescenti che non
servono e danneggiano tutti. Teniamo presente che quando parliamo di violenza
contro i minori stiamo usando, in termini tecnici, una categoria molto vasta
che evoca forme di violenza inquietanti (abuso sessuale, violenza fisica) e,
quindi, si spiega anche la reattività delle persone dinanzi alla notizia diffusa dalla stampa. Ma violenza contro i
minori significa anche maltrattamenti, discuria (trascuratezza per la salute), eccedenza anche involontaria di messaggi
sessuali, risposte inadeguate ai bisogni fondamentali del minore (di sicurezza,
di stabilità, di buona relazione, ecc..). Perciò molti, anche alcuni genitori
potrebbero essere accusati di violenza contro i figli. Teniamo anche presente
che a volte l’informazione, per un meccanismo insito nella comunicazione,
rischia di distorcere la reale entità dei fatti. E stiamo anche attenti alle
indagini: può essere inadeguato interrogare i bambini i quali, nel nostro caso,
a quanto pare, continuano, sembrerebbe tranquillamente, a frequentare la scuola
nella medesima classe in cui sono arrivati nuovi docenti. Il rischio è quello, attraverso la
rievocazione, di rinforzare l’evento (e
il vissuto relativo) e di indurre false risposte. E’ un rischio che vale la
pena di correre solo in situazioni molto gravi. Non dimentichiamo il caso
Rignano!
Ma mi chiedo anche, è legittimo, quanto non ci sia, nella scuola, un
sommerso di “violenza”, di risposte inadeguate ed inefficienti ( il non dare
ciò che si dovrebbe dare è già di per sé una violenza, ), di difficoltà relazionali,
di comportamenti reattivi nei confronti di allievi definiti “difficili”. (Non
esistono ragazzi difficili ma relazioni difficili in cui sono parimenti
implicati docenti e allievi.) Mi meraviglia sempre, infatti, quando si scoprono
casi di “violenza” a scuola, che a svelarli debbano essere poliziotti e
carabinieri. E’ possibile che nella scuola, che è una comunità, dove si lavora
fianco a fianco, nessuno si accorga mai di nulla, è possibile che nessun
docente, per una falsa concezione della lealtà, denunci mai un collega? Ma l’unica vera lealtà
è quella che si deve alla propria professione e alla istituzione per cui si
lavora. A scuola vige, spesso, l’omertà: si preferisce tacere per quieto
vivere, per non fare sapere all’esterno e non far fare brutta figura alla
propria scuola.
Non mettiamo alla gogna le due docenti, le quali, sicuramente, si sono
rese responsabili di comportamenti, inadeguati, inaccettabili, dannosi per gli
allievi, per i quali vanno sottoposte
all’iter del caso. Nei loro confronti provo una umana pietas: per aver
dato luogo a tali manifestazioni comportamentali, assolutamente incompatibili
con il ruolo ricoperto, sono già state, presumo, sufficientemente punite e
danneggiate dalla sorte, dall’educazione ricevuta e dall’esperienze di vita. La
violenza agita contro gli altri si ritorce contro se stessi perché comporta
sempre una diminuzione della propria umanità. Sicuramente si tratta di persone
che sono in sofferenza psicologica e che trovano difficoltà, in questa fase della loro vita almeno, a
ricoprire il ruolo di docente. Quella
del docente, ci dicono alcune ricerche, è una professione, come tutte quelle
relazionali, soggetta a forti quote di stress e a rischio di burnout. Lo
stress, comunque prodotto, sia dal particolare impegno lavorativo sia da eventi
traumatici della vita (un lutto, una malattia,) genera disregolazione affettiva
cioè la difficoltà a gestire le proprie emozioni e la propria reattività
disturbando fortemente la vita di relazione a qualsiasi livello.
C’è da fare, magari, qualche altra considerazione
sul sistema scolastico italiano, sui meccanismi (o i mancati meccanismi) di
formazione e reclutamente degli insegnanti; sugli standard di valutazione (o mancata
valutazione) dei requisiti di accesso all’insegnamento. Per altre professioni si richiede almeno un
test attitudinale ed un monitoraggio costante delle abilità e della efficienza.
Nelle aziende, anche quelle medio-piccole, si valuta lo Stress Lavoro
Correlato. I docenti vengono, invece, lasciati soli, in un momento in cui
insegnare è diventato più complesso e i carichi di lavoro più pesanti e la rete
della burocrazia una sorte di vortice. Non c’è valutazione dello stress né
attenzione per il loro benessere psichico, che dovrebbe essere tutelato in considerazione proprio della
delicatezza del lavoro che essi svolgono.
Diciamolo onestamente: la scuola è stato il più grosso ufficio di
collocamento italiano! Si provi a chiedere ad un ragazzo dell’ultimo anno di
scuola secondaria che cosa vorrà fare da grande. Nessuno risponderà: “Voglio
fare l’insegnante!”. Allora da dove nasce la motivazione dei molti che premono
per inserirsi nel mondo della scuola? Nella maggior parte dei casi, quando non
si riesce a fare altro, si ripiega sulla scuola. Sono pochi i docenti che fanno
una scelta consapevole, animati da passione, da entusiasmo, dalla certezza di
fare un lavoro speciale e di eccellenza. Una volta chi si avvicinava alla
scuola lo faceva con l’orgoglio della
prospettiva di un lavoro intellettuale ed emancipante. Erano tempi in cui si
offrì, tra l’altro, attraverso l’approdo all’insegnamento, massicciamente
l’apertura delle donne al lavoro intellettuale. Le donne docenti hanno avuto un
ruolo significativo e fondamentale per l’emancipazione femminile.
Se mancano motivazione e passione per il lavoro che si svolge lo stress
aumenta. Insegnare non è un mestiere come gli altri. Il docente non trasmette
solo contenuti ma plasma le menti e le personalità, induce e costruisce modelli
relazionali che incideranno fortemente sulla vita affettiva emotiva e
relazionale degli adulti di domani. Se lo psicoanalista ricostruisce le menti
l’insegnante, insieme, alla famiglia le crea.
I bambini, soprattutto nella prima infanzia, sono in forte sviluppo cerebrale e
mentale e il lavoro con loro vuole una particolare cura ed attenzione. Le
neuroscienze ci dicono che i primi tre anni di vita plasmano il cervello: i
neuroni formano dalle 700 alle 1000 sinapsi al minuto. L’80 per cento del
cervello è già formato.
Per insegnare non bastano i saperi: si può essere geniali e nello
stesso tempo essere docenti incapaci. Per stare in cattedra occorrono
equilibrio, capacità di regolare le proprie emozioni e gestire la propria
reattività nelle situazioni difficili, abilità relazionali. Oggi si parla molto
di buona relazione ma sfugge quanto
questo costrutto sia complesso e quante componenti e sottodimensioni implichi.
Chi testa queste abilità, imprescindibili per la professione di insegnante, al
momento dell’entrata nella scuola? Le si danno per scontate. Ma queste abilità
non si possiedono in natura. Ne possediamo la “disposizione” ma questa deve essere allevata, sviluppata e
rinforzata nel tempo per tradursi in attitudini concrete. Tutto questo non si
fa, anzi neanche si conosce. Eppure esistono protocolli di formazione validi
per il loro sviluppo, come esistono protocolli, specifici per i docenti, volti
alla prevenzione e alla riduzione dello stress e del burnout (Mindfulness). Ma
tutto questo non penetra nelle scuole, dove si preferisce rivolgersi a corsi di
aggiornamento obsoleti ed inutili, magari online (dov’è la relazione che è
fondamentale per la formazione?), rincorrere qualche tecnica o metodologia didattica
miracolosa, importata d’oltreoceano dove,
magari, già c’è una linea in controtendenza verso la stessa. Appunto la tecnica
piuttosto che la formazione. Nelle scuole si fanno “tante cose” diceva una
dirigente qualche settimana fa. Appunto, è quel “tanto” il problema, quel
“tanto” che diventa un “troppo” che copre la domanda “che cosa fare? Che cosa è
utile e significativo davvero fare?”
Maria Felice Pacitto (psicologa,
psicoterapeuta, filosofa della mente)
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