(Articolo già pubblicato sul quotidiano "L'Inchiesta")
Siamo alla fine del secondo anno
di pandemia. E’ già un privilegio poterlo dire. Ma questa vita che siamo riusciti a tenerci stretta grazie,
forse, ai nostri geni, all’obbedienza alle regole di comportamento prescritte
dai sanitari, grazie ai vaccini o, forse, al caso, non ci piace. Non piace a
nessuno. Siamo stanchi. La nostra vita si è impoverita di relazioni, di
presenze, di sonno, di tranquillità, di certezze. In molti casi si è impoverita
anche di quelle opportunità che definiscono una società democratica e giusta:
reddito, dignità, riconoscimento. C’è una fascia di umanità che la pandemia
rischia di far scivolare paurosamente nella marginalità. E non stiamo parlando
solo di paesi lontani da noi e da sempre al limite della sopravvivenza.
Delle dimensioni del vivere, che il filosofo
Rawls, definisce opportunità solo la Cura
(che è un bene relazionale) è rimasta
stabile e al centro, sia pur lacunosa nelle pratiche: molti malati non hanno
potuto curarsi perché tutta l’attenzione e le risorse sono state rivolte alla
soluzione del problema pandemia; molte popolazioni, economicamente
svantaggiate, non possono accedere ai vaccini. Cura è termine dal significato molto ampio che va oltre quello del
prendersi cura della salute della persona: vuole un passaggio primario e
necessario, cioè il riconoscimento dell’altro come persona, nella sua dignità;
vuole un’attenzione amorevole. Non è a caso che viene considerato un bene
relazionale, in quanto è imprescindibile da una condizione di relazionalità che
ci rende pienamente umani.
Mai come in questi due anni
termini quali empatia, cooperazione, cura, altruismo, fragilità, vulnerabilità,
sono diventati di uso comune e quotidiano. Parole che vanno insieme,
strettamente legate, perché è proprio dalla percezione della comune fragilità e
vulnerabilità, condizioni costitutive dell’esistenza, che si attivano le pratiche di socializzazione tra cui è
centrale la CURA. E’ attraverso la percezione della sofferenza altrui che si
attiva l’immedesimazione con chi la prova e nasce l’intenzione di alleviarla,
così insegna il filosofo A. Smith. E per Heidegger la Cura è il gesto più originario
della condizione umana.
Allora potremmo considerare questi due anni di
pandemia come un lungo laboratorio, come un esercizio, come una sorta di
educazione all’altruismo, all’empatia, alla cura dell’altro? Ne siamo usciti
realmente educati? Siamo realmente cresciuti in umanità? Difficile a dirsi.
Talora, situazioni di emergenza possono portare a cambiamenti
comportamentali perché utili alla
sopravvivenza. Ma non è detto che rimangano stabili nel tempo. Sta di fatto che,
durante questi due anni molti fatti sono accaduti, che ci fanno pensare che
vizi e peccati degli uomini neanche una pandemia riesce a scalfirli: sono
aumentate le violenze domestiche, rimane l’avidità di denaro (si pensi alla
tragedia del Montarone); rimane la sete di potere ad ogni costo: dinanzi ad una emergenza, in cui era doverosa
la collaborazione di tutti, non sono mancati comportamenti subdoli
ed eticamente ingiustificabili da parte di alcuni politici volti solo a
riposizionarsi sulla scacchiera politica e ad acquisire maggiore potere.
In questi giorni, al di sotto
dell’aria gaia delle festività natalizie, si avverte una insofferenza, una
animosità pronte ad esplodere, dovute alla delusione (il virus,che pensavamo di
poter debellare definitivamente e rapidamente con i vaccini, continua a
minacciare le nostre vite), alla informazione che continua ad essere confusiva
ed incerta. Ma perché meravigliarsi? Abbiamo assistito ad esplosioni ed esternazioni
di menti eccelse, affermazioni discutibili per l’impatto che hanno avuto sui
cittadini e che hanno alimentato la schiera degli indecisi in merito ai
vaccini. Ultimo Cacciari, maitre a penser di larga fama, il quale in un
articolo del 15 dicembre, pubblicato sul La
Stampa, dopo una lucida analisi della crisi della politica che perde potere
decisionale delegandolo ai tecnici, delle forze economiche più forti di quelle
politiche, finisce con una sorta di rabbuffo nei confronti di chi, pur avendo
letto Bernjamin ed Adorno in gioventù, ha fatto della biosecurity la cosa
“prima ed ultima” e “che ora sembra di non avere altra cura che di aggiungere
qualche anno alla propria vita”. E
perché non dovrebbe? Questa è l’unica vita che abbiamo e ce la vogliamo tenere
cara, anche se non ci piace del tutto. Perciò: viviamo pienamente il presente
(il momento presente allevia da ansia e stress per il futuro) e armati di
fiducia e coraggio ( due virtù imprescindibili in questo frangente) guardiamo
al futuro! Le forze psichiche della fiducia e del coraggio si sposano con
quelle biologiche del DNA, la forza vitale che vuole andare avanti, riprodursi,
che ci spinge. E’ per questo che diciamo sempre…..Domani!