Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia

venerdì 18 gennaio 2019

A proposito di maltrattamenti nella scuola dell'infanzia a Cassino: le inadeguatezze del sistema scolastico italiano


L’Inchiesta

Martedì 15/1/2019

Il fattaccio di via Zamosh e le inadeguatezze del sistema scolastico italiano.

Si pensa sempre che “crimini e misfatti” accadano altrove e che il paese in cui viviamo ne sia indenne, ne sia graziato. Chissà perché! Eppure questo paese non è diverso dalle tante piccole cittadine di provincia, sonnolente e apatiche, un paese che non brilla per sensibilità e cultura autentica (molti ne parlano e se ne ammantano ignorando quanto sia impegnativo usare la parola cultura!) Che paese è quello in cui non esiste un solo cinema? Che paese è quello in cui i giovani non trovano di meglio da fare che affollare, fino a tarda sera, i numerosissimi bar, con tutto quello che significa in termini di sicurezza e salute. Che paese è quello in cui i livelli di stress dei cittadini è alto per un traffico mal gestito e per le musiche ad alto volume che imperversano fino a tarda notte ed impediscono di dormire? Che paese è quello in cui  la cultura, quella “pesante”, è affidata alle iniziative di pochi intellettuali volenterosi che ci provano a dissodare e ad umanizzare il territorio, sostenuti da alcuni imprenditori illuminati?

Il fatto di via Zamosh non  mi sconvolge né mi meraviglia. Certo, mi addolora per i piccoli che hanno vissuto una esperienza negativa, i cui effetti dovranno essere valutati, ma, attenzione, non drammatizziamo. Non parliamo di “psicosi” a Cassino, per favore! Non ne facciamo un caso che potrebbe danneggiare ulteriormente i minori. Non è stato bello e buono prelevare una docente proprio dinanzi alla scuola! Come ha agito questa procedura sulle menti dei bambini presenti? Non diamo la stura alla reattività e conserviamo la ragionevolezza.

La reazione dell’ambiente, della famiglia, degli adulti (il modo cioè in cui viene recepito  e vissuto un evento traumatico o comunque difficile che colpisce un bambino), agisce fortemente sul vissuto stesso del bambino rischiando di amplificare l’evento, di renderlo ancora più dannoso. Perciò meno clamore e meno toni incandescenti che non servono e danneggiano tutti. Teniamo presente che quando parliamo di violenza contro i minori stiamo usando, in termini tecnici, una categoria molto vasta che evoca forme di violenza inquietanti (abuso sessuale, violenza fisica) e, quindi, si spiega anche la reattività delle persone dinanzi alla notizia  diffusa dalla stampa. Ma violenza contro i minori significa anche maltrattamenti, discuria (trascuratezza  per la salute),  eccedenza anche involontaria di messaggi sessuali, risposte inadeguate ai bisogni fondamentali del minore (di sicurezza, di stabilità, di buona relazione, ecc..). Perciò molti, anche alcuni genitori potrebbero essere accusati di violenza contro i figli. Teniamo anche presente che a volte l’informazione, per un meccanismo insito nella comunicazione, rischia di distorcere la reale entità dei fatti. E stiamo anche attenti alle indagini: può essere inadeguato interrogare i bambini i quali, nel nostro caso, a quanto pare, continuano, sembrerebbe tranquillamente, a frequentare la scuola nella medesima classe in cui sono arrivati nuovi docenti.  Il rischio è quello, attraverso la rievocazione, di rinforzare l’evento  (e il vissuto relativo) e di indurre false risposte. E’ un rischio che vale la pena di correre solo in situazioni molto gravi. Non dimentichiamo il caso Rignano!

Ma mi chiedo anche, è legittimo, quanto non ci sia, nella scuola, un sommerso di “violenza”, di risposte inadeguate ed inefficienti ( il non dare ciò che si dovrebbe dare è già di per sé una violenza, ), di difficoltà relazionali, di comportamenti reattivi nei confronti di allievi definiti “difficili”. (Non esistono ragazzi difficili ma relazioni difficili in cui sono parimenti implicati docenti e allievi.) Mi meraviglia sempre, infatti, quando si scoprono casi di “violenza” a scuola, che a svelarli debbano essere poliziotti e carabinieri. E’ possibile che nella scuola, che è una comunità, dove si lavora fianco a fianco, nessuno si accorga mai di nulla, è possibile che nessun docente, per una falsa concezione della lealtà,  denunci mai un collega? Ma l’unica vera lealtà è quella che si deve alla propria professione e alla istituzione per cui si lavora. A scuola vige, spesso, l’omertà: si preferisce tacere per quieto vivere, per non fare sapere all’esterno e non far fare brutta figura alla propria scuola.

Non mettiamo alla gogna le due docenti, le quali, sicuramente, si sono rese responsabili di comportamenti, inadeguati, inaccettabili, dannosi per gli allievi, per i quali vanno sottoposte  all’iter del caso. Nei loro confronti provo una umana pietas: per aver dato luogo a tali manifestazioni comportamentali, assolutamente incompatibili con il ruolo ricoperto, sono già state, presumo, sufficientemente punite e danneggiate dalla sorte, dall’educazione ricevuta e dall’esperienze di vita. La violenza agita contro gli altri si ritorce contro se stessi perché comporta sempre una diminuzione della propria umanità. Sicuramente si tratta di persone che sono in sofferenza psicologica e che trovano difficoltà, in  questa fase della loro vita almeno, a ricoprire  il ruolo di docente. Quella del docente,  ci dicono alcune  ricerche, è una professione, come tutte quelle relazionali, soggetta a forti quote di stress e a rischio di burnout. Lo stress, comunque prodotto, sia dal particolare impegno lavorativo sia da eventi traumatici della vita (un lutto, una malattia,) genera disregolazione affettiva cioè la difficoltà a gestire le proprie emozioni e la propria reattività disturbando fortemente la vita di relazione a qualsiasi livello.

  C’è da fare, magari, qualche altra considerazione sul sistema scolastico italiano, sui meccanismi (o i mancati meccanismi) di formazione e reclutamente degli insegnanti;  sugli standard di valutazione (o mancata valutazione) dei requisiti di accesso all’insegnamento.  Per altre professioni si richiede almeno un test attitudinale ed un monitoraggio costante delle abilità e della efficienza. Nelle aziende, anche quelle medio-piccole, si valuta lo Stress Lavoro Correlato. I docenti vengono, invece, lasciati soli, in un momento in cui insegnare è diventato più complesso e i carichi di lavoro più pesanti e la rete della burocrazia una sorte di vortice. Non c’è valutazione dello stress né attenzione per il loro benessere psichico, che dovrebbe essere  tutelato in considerazione proprio della delicatezza del lavoro che essi svolgono.

Diciamolo onestamente: la scuola è stato il più grosso ufficio di collocamento italiano! Si provi a chiedere ad un ragazzo dell’ultimo anno di scuola secondaria che cosa vorrà fare da grande. Nessuno risponderà: “Voglio fare l’insegnante!”. Allora da dove nasce la motivazione dei molti che premono per inserirsi nel mondo della scuola? Nella maggior parte dei casi, quando non si riesce a fare altro, si ripiega sulla scuola. Sono pochi i docenti che fanno una scelta consapevole, animati da passione, da entusiasmo, dalla certezza di fare un lavoro speciale e di eccellenza. Una volta chi si avvicinava alla scuola lo faceva con l’orgoglio  della prospettiva di un lavoro intellettuale ed emancipante. Erano tempi in cui si offrì, tra l’altro, attraverso l’approdo all’insegnamento, massicciamente l’apertura delle donne al lavoro intellettuale. Le donne docenti hanno avuto un ruolo significativo e fondamentale per l’emancipazione femminile.

Se mancano motivazione e passione per il lavoro che si svolge lo stress aumenta. Insegnare non è un mestiere come gli altri. Il docente non trasmette solo contenuti ma plasma le menti e le personalità, induce e costruisce modelli relazionali che incideranno fortemente sulla vita affettiva emotiva e relazionale degli adulti di domani. Se lo psicoanalista ricostruisce le menti l’insegnante,  insieme, alla famiglia le crea. I bambini, soprattutto nella prima infanzia, sono in forte sviluppo cerebrale e mentale e il lavoro con loro vuole una particolare cura ed attenzione. Le neuroscienze ci dicono che i primi tre anni di vita plasmano il cervello: i neuroni formano dalle 700 alle 1000 sinapsi al minuto. L’80 per cento del cervello è già formato.

Per insegnare non bastano i saperi: si può essere geniali e nello stesso tempo essere docenti incapaci. Per stare in cattedra occorrono equilibrio, capacità di regolare le proprie emozioni e gestire la propria reattività nelle situazioni difficili, abilità relazionali. Oggi si parla molto di  buona relazione ma sfugge quanto questo costrutto sia complesso e quante componenti e sottodimensioni implichi. Chi testa queste abilità, imprescindibili per la professione di insegnante, al momento dell’entrata nella scuola? Le si danno per scontate. Ma queste abilità non si possiedono in natura. Ne possediamo la “disposizione” ma  questa deve essere allevata, sviluppata e rinforzata nel tempo per tradursi in attitudini concrete. Tutto questo non si fa, anzi neanche si conosce. Eppure esistono protocolli di formazione validi per il loro sviluppo, come esistono protocolli, specifici per i docenti, volti alla prevenzione e alla riduzione dello stress e del burnout (Mindfulness). Ma tutto questo non penetra nelle scuole, dove si preferisce rivolgersi a corsi di aggiornamento obsoleti ed inutili, magari online (dov’è la relazione che è fondamentale per la formazione?), rincorrere  qualche  tecnica o metodologia didattica miracolosa,  importata d’oltreoceano dove, magari, già c’è una linea in controtendenza verso la stessa. Appunto la tecnica piuttosto che la formazione. Nelle scuole si fanno “tante cose” diceva una dirigente qualche settimana fa. Appunto, è quel “tanto” il problema, quel “tanto” che diventa un “troppo” che copre la domanda “che cosa fare? Che cosa è utile e significativo davvero fare?”

 Maria Felice Pacitto (psicologa, psicoterapeuta, filosofa della mente)

 

 

 

 



 
L’Inchiesta
Martedì 15/1/2019
Il fattaccio di via Zamosh e le inadeguatezze del sistema scolastico italiano.
Si pensa sempre che “crimini e misfatti” accadano altrove e che il paese in cui viviamo ne sia indenne, ne sia graziato. Chissà perché! Eppure questo paese non è diverso dalle tante piccole cittadine di provincia, sonnolente e apatiche, un paese che non brilla per sensibilità e cultura autentica (molti ne parlano e se ne ammantano ignorando quanto sia impegnativo usare la parola cultura!) Che paese è quello in cui non esiste un solo cinema? Che paese è quello in cui i giovani non trovano di meglio da fare che affollare, fino a tarda sera, i numerosissimi bar, con tutto quello che significa in termini di sicurezza e salute. Che paese è quello in cui i livelli di stress dei cittadini è alto per un traffico mal gestito e per le musiche ad alto volume che imperversano fino a tarda notte ed impediscono di dormire? Che paese è quello in cui  la cultura, quella “pesante”, è affidata alle iniziative di pochi intellettuali volenterosi che ci provano a dissodare e ad umanizzare il territorio, sostenuti da alcuni imprenditori illuminati?
Il fatto di via Zamosh non  mi sconvolge né mi meraviglia. Certo, mi addolora per i piccoli che hanno vissuto una esperienza negativa, i cui effetti dovranno essere valutati, ma, attenzione, non drammatizziamo. Non parliamo di “psicosi” a Cassino, per favore! Non ne facciamo un caso che potrebbe danneggiare ulteriormente i minori. Non è stato bello e buono prelevare una docente proprio dinanzi alla scuola! Come ha agito questa procedura sulle menti dei bambini presenti? Non diamo la stura alla reattività e conserviamo la ragionevolezza.
La reazione dell’ambiente, della famiglia, degli adulti (il modo cioè in cui viene recepito  e vissuto un evento traumatico o comunque difficile che colpisce un bambino), agisce fortemente sul vissuto stesso del bambino rischiando di amplificare l’evento, di renderlo ancora più dannoso. Perciò meno clamore e meno toni incandescenti che non servono e danneggiano tutti. Teniamo presente che quando parliamo di violenza contro i minori stiamo usando, in termini tecnici, una categoria molto vasta che evoca forme di violenza inquietanti (abuso sessuale, violenza fisica) e, quindi, si spiega anche la reattività delle persone dinanzi alla notizia  diffusa dalla stampa. Ma violenza contro i minori significa anche maltrattamenti, discuria (trascuratezza  per la salute),  eccedenza anche involontaria di messaggi sessuali, risposte inadeguate ai bisogni fondamentali del minore (di sicurezza, di stabilità, di buona relazione, ecc..). Perciò molti, anche alcuni genitori potrebbero essere accusati di violenza contro i figli. Teniamo anche presente che a volte l’informazione, per un meccanismo insito nella comunicazione, rischia di distorcere la reale entità dei fatti. E stiamo anche attenti alle indagini: può essere inadeguato interrogare i bambini i quali, nel nostro caso, a quanto pare, continuano, sembrerebbe tranquillamente, a frequentare la scuola nella medesima classe in cui sono arrivati nuovi docenti.  Il rischio è quello, attraverso la rievocazione, di rinforzare l’evento  (e il vissuto relativo) e di indurre false risposte. E’ un rischio che vale la pena di correre solo in situazioni molto gravi. Non dimentichiamo il caso Rignano!
Ma mi chiedo anche, è legittimo, quanto non ci sia, nella scuola, un sommerso di “violenza”, di risposte inadeguate ed inefficienti ( il non dare ciò che si dovrebbe dare è già di per sé una violenza, ), di difficoltà relazionali, di comportamenti reattivi nei confronti di allievi definiti “difficili”. (Non esistono ragazzi difficili ma relazioni difficili in cui sono parimenti implicati docenti e allievi.) Mi meraviglia sempre, infatti, quando si scoprono casi di “violenza” a scuola, che a svelarli debbano essere poliziotti e carabinieri. E’ possibile che nella scuola, che è una comunità, dove si lavora fianco a fianco, nessuno si accorga mai di nulla, è possibile che nessun docente, per una falsa concezione della lealtà,  denunci mai un collega? Ma l’unica vera lealtà è quella che si deve alla propria professione e alla istituzione per cui si lavora. A scuola vige, spesso, l’omertà: si preferisce tacere per quieto vivere, per non fare sapere all’esterno e non far fare brutta figura alla propria scuola.
Non mettiamo alla gogna le due docenti, le quali, sicuramente, si sono rese responsabili di comportamenti, inadeguati, inaccettabili, dannosi per gli allievi, per i quali vanno sottoposte  all’iter del caso. Nei loro confronti provo una umana pietas: per aver dato luogo a tali manifestazioni comportamentali, assolutamente incompatibili con il ruolo ricoperto, sono già state, presumo, sufficientemente punite e danneggiate dalla sorte, dall’educazione ricevuta e dall’esperienze di vita. La violenza agita contro gli altri si ritorce contro se stessi perché comporta sempre una diminuzione della propria umanità. Sicuramente si tratta di persone che sono in sofferenza psicologica e che trovano difficoltà, in  questa fase della loro vita almeno, a ricoprire  il ruolo di docente. Quella del docente,  ci dicono alcune  ricerche, è una professione, come tutte quelle relazionali, soggetta a forti quote di stress e a rischio di burnout. Lo stress, comunque prodotto, sia dal particolare impegno lavorativo sia da eventi traumatici della vita (un lutto, una malattia,) genera disregolazione affettiva cioè la difficoltà a gestire le proprie emozioni e la propria reattività disturbando fortemente la vita di relazione a qualsiasi livello.
  C’è da fare, magari, qualche altra considerazione sul sistema scolastico italiano, sui meccanismi (o i mancati meccanismi) di formazione e reclutamente degli insegnanti;  sugli standard di valutazione (o mancata valutazione) dei requisiti di accesso all’insegnamento.  Per altre professioni si richiede almeno un test attitudinale ed un monitoraggio costante delle abilità e della efficienza. Nelle aziende, anche quelle medio-piccole, si valuta lo Stress Lavoro Correlato. I docenti vengono, invece, lasciati soli, in un momento in cui insegnare è diventato più complesso e i carichi di lavoro più pesanti e la rete della burocrazia una sorte di vortice. Non c’è valutazione dello stress né attenzione per il loro benessere psichico, che dovrebbe essere  tutelato in considerazione proprio della delicatezza del lavoro che essi svolgono.
Diciamolo onestamente: la scuola è stato il più grosso ufficio di collocamento italiano! Si provi a chiedere ad un ragazzo dell’ultimo anno di scuola secondaria che cosa vorrà fare da grande. Nessuno risponderà: “Voglio fare l’insegnante!”. Allora da dove nasce la motivazione dei molti che premono per inserirsi nel mondo della scuola? Nella maggior parte dei casi, quando non si riesce a fare altro, si ripiega sulla scuola. Sono pochi i docenti che fanno una scelta consapevole, animati da passione, da entusiasmo, dalla certezza di fare un lavoro speciale e di eccellenza. Una volta chi si avvicinava alla scuola lo faceva con l’orgoglio  della prospettiva di un lavoro intellettuale ed emancipante. Erano tempi in cui si offrì, tra l’altro, attraverso l’approdo all’insegnamento, massicciamente l’apertura delle donne al lavoro intellettuale. Le donne docenti hanno avuto un ruolo significativo e fondamentale per l’emancipazione femminile.
Se mancano motivazione e passione per il lavoro che si svolge lo stress aumenta. Insegnare non è un mestiere come gli altri. Il docente non trasmette solo contenuti ma plasma le menti e le personalità, induce e costruisce modelli relazionali che incideranno fortemente sulla vita affettiva emotiva e relazionale degli adulti di domani. Se lo psicoanalista ricostruisce le menti l’insegnante,  insieme, alla famiglia le crea. I bambini, soprattutto nella prima infanzia, sono in forte sviluppo cerebrale e mentale e il lavoro con loro vuole una particolare cura ed attenzione. Le neuroscienze ci dicono che i primi tre anni di vita plasmano il cervello: i neuroni formano dalle 700 alle 1000 sinapsi al minuto. L’80 per cento del cervello è già formato.
Per insegnare non bastano i saperi: si può essere geniali e nello stesso tempo essere docenti incapaci. Per stare in cattedra occorrono equilibrio, capacità di regolare le proprie emozioni e gestire la propria reattività nelle situazioni difficili, abilità relazionali. Oggi si parla molto di  buona relazione ma sfugge quanto questo costrutto sia complesso e quante componenti e sottodimensioni implichi. Chi testa queste abilità, imprescindibili per la professione di insegnante, al momento dell’entrata nella scuola? Le si danno per scontate. Ma queste abilità non si possiedono in natura. Ne possediamo la “disposizione” ma  questa deve essere allevata, sviluppata e rinforzata nel tempo per tradursi in attitudini concrete. Tutto questo non si fa, anzi neanche si conosce. Eppure esistono protocolli di formazione validi per il loro sviluppo, come esistono protocolli, specifici per i docenti, volti alla prevenzione e alla riduzione dello stress e del burnout (Mindfulness). Ma tutto questo non penetra nelle scuole, dove si preferisce rivolgersi a corsi di aggiornamento obsoleti ed inutili, magari online (dov’è la relazione che è fondamentale per la formazione?), rincorrere  qualche  tecnica o metodologia didattica miracolosa,  importata d’oltreoceano dove, magari, già c’è una linea in controtendenza verso la stessa. Appunto la tecnica piuttosto che la formazione. Nelle scuole si fanno “tante cose” diceva una dirigente qualche settimana fa. Appunto, è quel “tanto” il problema, quel “tanto” che diventa un “troppo” che copre la domanda “che cosa fare? Che cosa è utile e significativo davvero fare?”
 Maria Felice Pacitto (psicologa, psicoterapeuta, filosofa della mente)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



 

 

 

 

 

 

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