Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia

domenica 17 ottobre 2021

VI CONVEGNO CASSINATE DI NEUROETICA E FILOSOFIA DELLE NEUROSCIENZE: GLI ABSTRACTS DEGLI INTERVENTI

 

             VI CONVEGNO CASSINATE

                 (Scuola di Alta Formazione in Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze)

                                                 La vita delle menti

                                                     1-2  Ottobre    2021

Abstracts

 

                                               Le basi evolutive dell’altruismo

Ines Adornetti

 

Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università Rome Tre

 

Gli esseri umani sono per natura cooperativi e altruisti verso i propri simili o tendono, al contrario, ad essere naturalmente egoisti e individualisti? Molti pensatori hanno affrontato questi interrogativi provando a fornire delle risposte. Le più famose tra queste sono senza dubbio quelle proposte dai filosofi Hobbes e Rousseau. Secondo il primo, gli esseri umani sono naturalmente egoisti e sono le istituzioni sociali che successivamente insegnano loro a essere migliori. Diametralmente opposta è l’opinione di Rousseau: a suo avviso allo stato di natura gli esseri umani sono solidali e vengono poi corrotti dalla società. Che ne è di questo dibattito – naturalmente altruisti vs naturalmente egoisti – nella riflessione contemporanea? Oggi non solo la filosofia, ma anche le scienze empiriche si occupano di indagare la questione attraverso nuovi strumenti e metodologie. In particolare, nell’ambito delle scienze cognitive evoluzionistiche l’ipotesi del cervello sociale ha dato grande impulso al dibattito.  Non vi è, però, al momento una soluzione definitiva alla disputa tra le due prospettive in campo. L’ipotesi del cervello sociale, in effetti, è stata utilizzata sia per esaltare gli aspetti cooperativi-altruistici dell’essere umano, sia per sottolinearne il carattere competitivo-egoistico. Quello che emerge con chiarezza è che non è possibile aderire a una delle due posizioni in modo semplicistico e unilaterale - probabilmente entrambe contengono elementi di verità – e che sono necessarie prospettive più articolate. A titolo di esempio, in questa relazione verrà presentato il modello dello psicologo evoluzionista Michael Tomasello che mostra quanto l’adesione alla prospettiva della cooperazione richieda il riferimento a un ricco apparo tanto empirico quanto concettuale.

 

 

 

 

Gli effetti della riduzione del contatto fisico positivo causata dalla pandemia di COVID-19 sulla salute mentale

 

Francesco Bruno

                                                         

 

  Centro Regionale di Neurogenetica (CRN) – ASP di Catanzaro

 

La Pandemia della Malattia da Nuovo Coronavirus 2019 (COVID-19) provocata dal virus SARS-CoV-2, è iniziata a dicembre 2019 nella città di Wuhan e successivamente si è diffusa in più di 210 Paesi del mondo, rappresentando così un’emergenza per la sanità pubblica internazionale. Al fine di contenere la diffusione dei contagi, nella maggior parte dei Paesi, sono state adottate diverse misure, tra le quali rientra il distanziamento fisico. Nonostante rappresenti una misura indispensabile per contenere la diffusione del COVID-19, il distanziamento fisico limita la capacità delle persone di mantenere connessioni affettive e sociali e, di conseguenza, potrebbe avere conseguenze drammatiche sulla salute mentale. In effetti, diversi studi hanno dimostrato che la Pandemia di COVID-19 è associata ad un incremento significativo di ansia, depressione, stress e sintomi da stress post-traumatico (PTSS). Durante la relazione verranno presentati i risultati di una ricerca svolta su oltre 3000 soggetti volta ad investigare gli effetti della riduzione del contatto fisico positivo causata dalla pandemia di COVID-19 sulla salute mentale degli italiani.

 

 

                Gli abbracci ai tempi delle Neuroscienze

                                          Sonia Canterini

         Facoltà di Psicologia e Medicina,  Università di Roma-La Sapienza

                    

 

 “Quanti significati sono celati dietro un abbraccio?
Che cos’è un abbraccio se non comunicare, condividere
e infondere qualcosa di sé ad un’altra persona?
Un abbraccio è esprimere la propria esistenza

a chi ci sta accanto, qualsiasi cosa accada,
nella gioia e nel dolore.

Pablo Neruda

Come ben espresso da Pablo Neruda, l’atto di abbracciare non serve solo come semplice gesto di saluto ma è soprattutto utilizzato per esprimere, in maniera diretta e istintiva, emozioni e sostegno sociale. Gli abbracci, che oggigiorno diamo e riceviamo sempre meno, scatenano in noi una serie di benefici sia fisici che emotivi, favorendo l’attivazione di aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione delle informazioni di tipo sociale ed emotivo, quali: la corteccia insulare, l’amigdala, l’ippocampo, il talamo e l’ipotalamo, la corteccia cingolata e la corteccia orbitofrontale. Gli abbracci fanno bene perché influenzano positivamente il nostro sistema neuroendocrino, stimolando il rilascio di ossitocina ed endorfine. Il neurormone ossitocina, conosciuto anche come l’ormone dell’amore, insieme alle endorfine, è in grado di ridurre i conflitti, aumentare l’attaccamento e il legame fra le persone, , migliorare il riconoscimento delle emozioni e la memoria sociale, mitigare lo stress e influenzare positivamente il sistema cardiovascolare, il sistema immunitario, rendendoci più sinceri ed empatici.

In ambito clinico alcune patologie, come l’aptofobia e i disturbi dello spettro autistico, inficiano la possibilità di stabilire un contatto fisico con le altre persone.  Studi recenti affermano che nei soggetti autistici, la riscontrata alterata sensibilità agli stimoli tattili è dipendente da una ridotta connettività della corteccia somatosensoriale e da una forte attivazione dell’amigdala, una specifica regione del cervello adibita all’elaborazione delle risposte di paura. Nuove tecnologie, come l’Hug Over a Distance, l’Huggy Pajama e l’Hugvie, aprono interessanti scenari in grado di trasmettere la sensazione di un abbraccio anche a distanza di migliaia di chilometri, offrendoci la possibilità di esplorare nuove ipotesi di trattamento per alcune patologie quali il disturbo dello spettro autistico.

           

           Evoluzione animale e umana. Utilità e limiti del principio di continuità

                                                             Marco Celentano

                       Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Cassino

Tra il 1871 e il 1872, Darwin, pubblicando  L’origine dell’uomo e L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo,  traeva le conseguenze delle premesse poste nel 1859 con L’origine delle specie e al contempo rinnovava la sua teoria della selezione naturale tenendo maggiormente in conto gli effetti della selezione sociale nell’evoluzione animale e umana. Queste due opere contenevano il più coerente superamento di ogni separazione metafisica tra l’uomo e gli altri animali e il più rigoroso tentativo di spiegare la genesi delle capacità cognitive umane con un approccio genealogico, storico e materialistico fino ad allora proposti. Tale superamento rientra tra i presupposti dell’etologia contemporanea, e ne rappresenta un’irrinunciabile conquista teorica e critica. Il “principio di continuità” tra l’uomo e i suoi antenati animali e di prossimità tra l’uomo e gli altri animali “superiori”,  che ne deriva, viene però interpretato, secondo il relatore, in modo sviante e inadeguato, nonché contrario al pensiero effettivo di Darwin, quando se ne fa discendere l’ipotesi che i comportamenti sociali, i precetti etici, gli assetti istituzionali, le forme di conoscenza  e le preferenze umane siano il frutto di una selezione naturale del “più adatto”. La selezione sociale umana, infatti, come già suggerì Konrad Lorenz, da millenni, e ancor più oggi nell’epoca dei grandi condizionamenti mediatici, “premia” in molti casi  tendenze comportamentali come “l’arrendevolezza all’indottrinamento”, la sottomissione ai poteri dominanti, la veicolazione acritica dei  modelli comportamentali da questi promossi, che risultano in realtà dannosi, non vantaggiosi, per chi ne è portatore. I patterns comportamentali dominanti nell’umanità attuale vanno paragonati, sotto questo profilo, più a quelli degli animali domesticati che a quelli degli animali selvatici o dei nostri parenti e predecessori ominidi.

 

          Mente e linguaggio: il confine tra esseri umani e animali non umani

Francesco Ferretti

 

Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università Rome Tre

 

Secondo l’opinione largamente prevalente nella riflessione contemporanea, il linguaggio è la caratteristica essenziale della natura umana, ciò che rende gli umani unici e imparagonabili con il resto del mondo animale. Alla base di una concezione di questo tipo è la tesi, cara alla tradizione cartesiana, della «differenza qualitativa» tra gli umani e gli altri esseri viventi. Secondo tale tradizione, esplicitamente ripresa nei modelli standard della scienza cognitiva, il linguaggio umano risponde a principi «del tutto diversi» da quelli in gioco nella comunicazione animale al punto da rendere vana qualsiasi forma di confronto. Contro la prospettiva cartesiana, in questa relazione si fa appello a una diversa tradizione di pensiero: assumendo che le differenze tra gli umani e gli altri animali debbano essere interpretate in termini di grado e mai di qualità, l’obiettivo di questa relazione è proporre un modello del linguaggio in accordo con i principi dell’evoluzione darwiniana e alla base di una prospettiva naturalisticamente fondata della natura umana. Un modo per considerare il linguaggio umano in continuità con la comunicazione animale è offerto dalla discussione delle ricerche su alcune scimmie culturalizzate – scimpanzé e bonobo – allevate in ambienti umani e sottoposte a un tipo di comunicazione «artificiale» interspecifica.  Il risultato principale di queste ricerche, in effetti, è che le grandi scimmie sanno fare cose col linguaggio che le avvicinano molto a ciò che con il linguaggio sanno fare gli esseri umani.

 

              Il luogo dell’etica nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein

 

                                                           Fausto Pellecchia

                                             Università degli Studi di Cassino

                                

L’oggetto di queste mie impertinenti o intempestive chiose di lettura è lo statuto dei giudizi di valore -e il significato della loro de-localizzazione sui bordi dello spazio linguistico- nella filosofia di Wittgenstein dal Tractatus logico-philosophicus (1922) alla Conferenza sull’etica (1929). Il punto di partenza, secondo il suggerimento di Ingeborg Bachmann [Il dicibile e l’indicibile, Milano, Adelphi, 1998, pp.45-79] è l’interpretazione corretta del celeberrimo enunciato 7, che conclude il Tractatus, tanto spesso evocato quanto altresì frequentemente travisato nella letteratura secondaria. 

Coerentemente con quanto asserito nel Tractatus, nella Conferenza il tentativo di esprimere esperienze di “valore assoluto” (il Bene, il Bello, il Mistico) è condannato al nonsenso, sebbene questo nonsenso documenti la tendenza, antropologicamente costitutiva e non-sradicabile, ad “avventarsi contro i limiti del linguaggio”. Questa insensatezza essenziale ed inemendabile contraddistingue l’uso etico-religioso ed estetico del linguaggio rispetto all’accidentale insensatezza sia delle pseudo-proposizioni filosofiche, sia delle “chiacchiere” di una pretesa scienza del Valore (etico ed estetico) che inavvertitamente travalicano i limiti dello spazio logico.

 In generale, linguaggio insensato è propriamente uno pseudolinguaggio che, in quanto costituito da segni apparenti, estranei al simbolismo che ne rende possibile l’applicazione al mondo, si sottrare alla dicotomia vero/falso su cui si fonda la teoria della raffigurazione. Al contrario, l’uso etico della parola si rivela come intenzionalmente – o essenzialmente – insensato, perché solo così può mettere in luce la propria inapplicabilità al mondo, per trasmettere implicitamente – in un tacito autoriferimento-  il sentimento del parlante in relazione ad una sua specifica esperienza.

 In questa tendenza autoreferenziale che si volge esclusivamente verso il sito atopico del parlante  in quanto esso è  “non l’uomo, non il corpo umano, o l'anima umana di cui si occupa la psicologia, ma il soggetto metafisico, che non è una parte, ma il limite del mondo” (TLP, 5.641), consiste la peculiare insensatezza del linguaggio etico-religioso (ed estetico). Perciò, il carattere essenzialmente “espressivo” del giudizio di valore, distanziandosi da ogni inclinazione soggettiva per l’emotivismo o il non-cognitivismo nelle questioni morali, si propone piuttosto come un’esibizione, via negationis, dell’elemento etico immanente alla stessa riflessione critica sul linguaggio e alla “retta visione del mondo”. Di qui l’affinità, nell’uso degli attributi etici ed estetici, tra nonsenso e gesto secondo un’idea non-comunicativa ed espressiva del linguaggio, che Wittgenstein svilupperà nell’arco degli anni ’30 del suo itinerario. Infatti, l’insensatezza come esperienza del limite del linguaggio, su cui si concentrano gli enunciati finali del Tractatus, mette capo, nella Conferenza del 1929, sulla ineliminabile piega metaforica, impressa nel conio delle “metafore assolute”, irriducibili al registro empirico-descrittivo, che costituiscono il sigillo del linguaggio etico-religioso.     

 

                Nel cervello di un'auto: vetture a guida autonoma e dilemmi morali

                                                                Pietro Perconti

                                          Dipartimento di scienze cognitive, Università di Messina

 

A fronte di innegabili vantaggi sociali, soprattutto in termini di efficienza e di sicurezza, i sistemi di guida autonoma sollevano numerosi problemi di natura tecnologica e di organizzazione sociale. Alcuni tra i problemi principali, tuttavia, sollevati da tali sistemi automatici riguardano la sfera etica. Il punto è che i veicoli dotati di guida autonoma sembrano avere una loro psicologia morale, sia che i progettisti ce l’abbiano inserita apposta tra gli algoritmi di controllo sia che abbiano tralasciato di affrontare il problema. I filosofi hanno un ruolo sociale significativo da svolgere in questa congiuntura. Si tratta, innanzi tutto, di esplicitare la psicologia morale celata nei dispositivi. Ma si tratta ugualmente di contribuire a dotare esplicitamente tali dispositivi dell’etica che ci sembra desiderabile. 

Per affrontare tali questioni nel corso del mio intervento proporrò anche l’esito di un lavoro sperimentale che ho condotto con alcuni colleghi e che è basato sull’uso della realtà virtuale e della costruzione di diversi scenari in cui saggiare le nostre intuizioni morali su come dovrebbe comportarsi una macchina in contesti morali sensibili. In particolare, abbiamo creato una “versione automobilistica” del celebre dilemma del trolley - un noto esperimento mentale usato nell’analisi etica più recente - per confrontare le reazioni intuitive dei guidatori di fronte a un dilemma morale con i loro stessi giudizi morali ponderati. L’esito dell’esperimento sembra di una qualche utilità per i progettisti dei sistemi di guida autonoma che regoleranno le automobili del prossimo futuro.

 

 

                              La protocooperazione tra polipi di Aurelia

 Jessica Vettese

 Università Politecnica delle Marche

 

Rimasta a lungo in secondo piano nello studio dei processi ecologici, la cooperazione è, negli ultimi decenni, al centro dell’attenzione di numerosi scienziati e filosofi di tutto il mondo.

Anche se le interazioni negative – quali la predazione, il parassitismo, la competizione – sono fenomeni importanti all’interno delle comunità e contribuiscono in maniera sostanziale al modellamento dell’ecosistema, le interazioni positive, tra cui la cooperazione, sono alla base di tutti i processi biologici, dalla comunicazione tra le cellule alle dinamiche che regolano le società umane.

Tra le varie forme di cooperazione, la protocooperazione è definita come “un’interazione tra organismi in cui entrambi traggono benefici, ma nessuno dei due dipende dalla relazione.” (Allaby, 2010). In altre parole, ogni organismo che partecipa all’azione conduce una vita indipendente, ma occasionalmente può cooperare con altri organismi per avere un beneficio maggiore.

Uno degli ultimi casi di protocooperazione è stato osservato nel 2018 nel Mediterraneo, a opera del corallo Astroides calycularis, i cui polipi cooperano per mangiare meduse dieci volte più grandi di loro. Per studiare questo fenomeno in altri organismi, polipi del genere Aurelia sono stati nutriti in laboratorio con prede di dimensioni adeguate per non essere predate da un singolo individuo, ma che si sono rivelate ottimali per la caccia in gruppo, consentendo lo sviluppo di interessanti ipotesi sui comportamenti protocooperativi.

 

 

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