Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia

domenica 29 gennaio 2017

Neurodiritto: l delitto Palleschi

 Sempre più, ormai, anche in Italia, si fa ricorso a prove di indagine cerebrale in ambito penale. La sentenza Palleschi è una delle prime, se non la prima, nella nostra zona. Palleschi, l’omicida della professoressa Gilberta Palleschi,  presenta alla Tac e alla elettroencefalografia una notevole compromissione del lobo frontale,  marcata  nella zona mesiale destra. La ricerca ormai da molto  tempo ha evidenziato come  il cervello frontale, deputato a quei processi mentali ed operazioni nobili che appartengono solo all’uomo, ha anche la funzione di inibire l’ipotalamo e l’amigdala, strutture sottocorticali, responsabili dell’aggressività e della paura. Se il frontale o le connessioni con le strutture sottostanti sono danneggiate da un trauma o da una malattia organica la persona diventa incapace di controllare le sue reazioni emotive. In letteratura rimane famoso il caso di Phineas Cage, l’operaio (studiato nel 148) che, mentre faceva esplodere una carica, ebbe il cranio perforato da una barra di ferro di un metro e mezzo di lunghezza e di 6kg di peso. La barra penetrò sotto l’occhio sinistro, attraversò il lobo frontale sinistro uscendo dalla parte superiore della testa:aveva distrutto una parte di cranio e di lobo frontale sinistro. Cage sopravvisse e riuscì a condurre una vita “abbastanza” normale, ma la sua personalità era stata profondamente trasformata: era diventato maleducato, impulsivo,ostinato. Finì i suoi giorni come fenomeno da baraccone in un circo, a mostrare, in cambio di denaro, il buco che aveva in testa. Il caso è stato ripreso recentemente dal neuroscienziato Antono Damasio per dimostrare appunto  come il frontale abbia un ruolo determinante nel controllo delle emozioni. Nel caso del Palleschi la compromissione riguardarebbe anche il frontale mesiale destro, zona che ha un ruolo nella capacità decisionale, nelle emozioni sociali (compassione, senso di colpa), ed ha una forte concentrazione di recettori della serotonina che oltre ad altre funzioni ha anche quella di facilitare la cooperazione. E’ evidente che il Palleschi avrà una sensibile riduzione di pena, considerando che presenta una significativa compromissione proprio di quelle zone cerebrali responsabili delle funzioni psichice più specificamente umane.
 Il caso Palleschi (e non è ovviamente il primo considerando che in Italia la prima sentenzaa a tener conto delle evidenze portate dalle tecniche d’indagine cerebrale, si è avuta nel 2009 a Trieste) ripropone una serie di questioni, non nuove, che riguardano una pluralità di discipline: dal diritto, alla filosofia morale,alla psichiatria alla psicologia, alla genetica, alle neuroscienze, alla neuroetica.  La prima,  più complessa e di vecchia data: “siamo giustificati a ritenere qualcuno moralmente e legalmente responsabile dei propri atti? “,“Siamo liberi cioè dotati di libero arbitrio?” Questioni di non poco conto, soprattutto l’ultima intorno alla quale, da sempre si è sviluppata parte della riflessione filosofica. Ora, le scienze cognitive e le neuroscienze ci restituiscono una visione del soggetto in contraddizione con la “psicologia del senso comune”,secondo la quale  la persona è autocosciente, libera e razionale, caratterizzata da un’unitarietà dell’Io e capace di autodeterminarsi.La persona che viene descritta dalle scienze cognitive è invece fatta di processi automatici inconsci, dotata di scarsa autonomia, priva   di un “homunculus cerebrale” che diriga le fila delle nostre azioni. La questione del libero arbitrio  è lontana dal poter essere sciolta,in quanto strettamente collegata all’altro tema  difficile (il tema “hard” delle neuroscienze)  quello della coscienza, anche se grandi passi si stanno facendo in questo senso grazie anche ad un neuroscienziato italiano, Giulio Tonioni, che ha elaborato una delle teorie più attendibili e attuali.
Ma torniamo al diritto e al processo.  Il codice civile prevede  una capacità di agire, che si acquista con la maggiore età,  e che   può essere considerata l’espressione di quello che in psicologia delle decisioni è noto come pensiero “normativo” (spesso usato in economia o matematica), l’assunzione che l'essere umano sia il modello di decisore razionale per eccellenza. Di fatto il  diritto e il codice civile e penale presuppongono quel libero arbitrio che la psicologia e le neuroscienze stanno sempre più mettendo in discussione. Le nuove scoperte sul nostro funzionamento rimettono in discussione categorie giuridiche come volontà e responsabilità, è vero. Ma è pur vero che in Germania gli studi di Libet sul “potenziale di prontezza” ( esperimenti ben noti relativi al fatto che diventiamo consapevoli delle nostre scelte solo dopo averle fatte) sono stati ritenuti insufficienti per modificare la categoria giuridica della volontà e della responsabilità. Ed è pur vero che il concetto di responsabilità, che è un “valore”, è un prodotto culturale e, in un’ottica darwinista, ha un significato evoluzionistico: è ciò che gli uomini, nel corso del tempo, si sono inventato per poter sopravvivere e per la stabilità delle comunità.  Cosa sarebbe di noi  e della nostra società senza che nessuno si sentisse responsabile per le sue azioni e senza che dovesse incorrere in alcuna pena in caso di infrazione di regole e leggi? E’ evidente che  norma,responsabilita, colpa e pena sono strettamente connessi ed inscindibili, categorie   che dobbiamo tenerci care e strette.
Allora cosa cambiano le prove di neuroimaging portate in tribunale?. In linea di principio nulla, per il semplice fatto che già da sempre prove psicodiagnostiche, di alta attendibilità, incrociate ai risultati dei colloqui clinici, sono state utilizzate per la riduzione della colpa e della pena dei soggetti criminali o addirittura per arrivare al giudizio (rarissimo) di incapacità di intendere e di volere. Il che significava comunque, scontare una pena in luoghi speciali ed idonei. Le prove di neuroimaging, semplicemente, ci aiutano a capire di più e, magari, venendo fatte passare quasi come una “fotografia” del  cervello possono avere un maggior impatto e apparire più attendibili di un reattivo mentale. Di fatto esse diventano determinanti solo quando vaste zone cerebrali siano organicamente compromesse, e comunque vanno sempre integrate con le altre prove tradizionali. A meno che non si voglia essere, come dice Daniel Dennett, “avidamente riduzionisti”!

 

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