Neuroscienze, neuroetica, filosofia della mente, psicoterapia

mercoledì 18 novembre 2015

Dopo Parigi: panico e paura. Siamo tutti in una condizione di trauma da stress.Chi sono i jidaisti


Dopo Parigi viviamo tutti una grande paura. ed incertezza. E già incominciano a manifestarsi, in molti, i tipici sintomi del Disturbo Post Traumatico da Stress. Con la paura dovremo convivere e per molti anni perché il terrorismo è un fenomeno complesso fatto di molte componenti storiche, politiche, religiose e non ultime le frange malavitose dell'occidente, che non si fanno scrupolo di fornire armi e mezzi tecnici all'ISIS, e i giovani terroristi che chiudono il cerchio delle azioni terroristiche.

Quasi nessuno è più convinto che la storia sia maestra  di vita. E se anche lo fosse, insegnante di vita, ha pessimi allievi. Si,perché, dopo la strage di Charlie Hebdo, la guardia avrebbe dovuto rimanere in allerta  in  Francia ( e in tutti i paesi occidentali) e non solo nel senso del controllo ma anche nella produzione di piani e strategie volte allo scioglimento dei conflitti e della violenza perché, è evidente, che qualsiasi manovra di vendetta e di ritorsione ci allontana sempre più dalla pace ed aumenta e riproduce la violenza. Eppure la conoscenza del tessuto sociale  avrebbe dovuto allertare Parigi, una città di 10 milioni di abitanti e con un forte tasso di immigrazione. Le banlieu, zone di emarginazione
e di vero aparthied, che nacquero con l’intento di alloggiarvi  quanti non fossero desiderabili , presentabili e disturbanti i luccichii di Parigi, sono una fonte di reclutamento per i jidaisti.. Fin dagli attentati  del 1995 al metrò parigino,gli islamisti radicali in Francia sono cresciuti. Si tratta di generazioni cresciute e scolarizzate in Francia, convertitesi al jidaismo . Generalmente il loro percorso è stato questo: vita di banlieu, delinquenza, carcere, conversione alla jihad, viaggio  verso un paese del medio oriente  in guerra, viaggio che è senza ritorno. È difficile, quasi impossibile, tornare indietro, perché le loro personalità, com’è tipico di ogni regime dittatoriale, sono fortemente plasmate e trasformate durante l’addestramento.Ed è per questo che accettano quello che per noi rimane incomprensibile cioè di morire. Sanno perfettamente che dalle loro missioni terroristiche non si torna tra i vivi. Ma quali sono esattamente le loro caratteristiche di personalità?. C’è un fattore che li accomuna tutti :l’ odio per la società occidentale. Un odio che si è alimentato di un vissuto di esclusione, avvertito come qualcosa di immodificabile,  che ha prodotto un sentimento d’inferiorità  irresarcibile, sfociato nell’ aggressività e nell’odio.Molti imboccano la via della delinquenza e della criminalità ma spesso questo non basta. L’esperienza del carcere rinforza l’odio per la società e l’avvicinarsi alle forme radicali dell’Islam.  Infatti non ci sono molti riguardi, in carcere, per gli internati di fede musulmana :mancano gli imam ed è impossibile praticare la preghiera collettiva del venerdì, il che facilita l’adesione al salafismo, una corrente integralista islamica che segna una linea di demarcazione netta fra i credenti tiepidi, non osservanti delle regole, e “Veri musulmani”.Il carcere dunque facilita la deriva verso l’islamismo integralista in chi vive già una condizione di isolamento e di marginalizzazione. Per molti, quelli più sofferenti , c’è bisogno di una forma di autoaffermazione forte che ribalti il loro stato d’inferiorità. È facile,a questo punto, avviarsi verso la strada della guerra santa che annulla la sofferenza e li trasforma  in grandi eroi, difensori della fede. Non sono più gli anonimi emarginati, che non contano nulla e che sopravvivano con piccoli atti criminali.Sono diventati protagonisti, eroi che difendono la fede sacra contro la società occidentale empia e colpevole, che deve essere eliminata a costo della vita stessa .Il momento finale e conclusivo del percorso del giovane jihdaista è quello del viaggio iniziatico verso un paese del medio oriente in cui si combatte la guerra santa:  qui imparano a utilizzare le armi, a diventare spietati, a giustiziare freddamente un ostaggio, a mettere da parte qualsiasi sensibilità empatica ed etica. A questo punto la costruzione dello jihadista eroe è completata:pronto a tutto, a uccidere come a morire. Accetterà di buon grado le missioni, farà di tutto per essere visto e riconosciuto soprattutto dai media. Sono proprio i media, infatti, a consacrarli come tali, come eroi, consentendo il ribaltamento di quel vissuto originario di  subalternità da cui tutto è partito. I bianchi da dominanti ed escludenti sono diventati preda della morte e del terrore. E questo dovrebbe far riflettere su come si debba usare la comunicazione mediale  nei confronti dei protagonisti del terrorismo. Parlarne, dedicare loro pagine, pubblicarne le foto (come si è verificato in questi giorni), li rende ancora più forti ed è proprio quello che vogliono. Ma c’è un secondo ambito di reclutamento per la jihad sviluppatosi dal 2013 in poi e che ci inquieta. Si tratta di ragazzi, appartenenti a famiglie borghesi, che vanno alla ricerca di un senso nella vita, ragazzi che costituiscono una buona fetta di reclutati al servizio dell’ISIS .Tra questi ragazzi che vanno alla ricerca di emozioni forti e della costruzione di un’identità attraverso azioni  che siano visibili e dirompenti. Ci sono anche ragazze annoiate di una vita superficiale, magari alla ricerca di rapporti più autentici e sinceri con ragazzi e uomini forti, diversi dai coetanei immaturi. Non ci troviamo dinanzi ad una riedizione delle tematiche psicologiche giovanili che animarono il ’68.Lì  i giovani si ribellavano ad una società eccessivamente autoritaria, conformista,che negava il piacere e il desiderio. Si trattava di una protesta che si dilatava anche in un afflato etico di denuncia delle contraddizioni del capitalismo, e che si prolungava, anche allora,nel viaggio  in oriente ma alla ricerca di una rivoluzione interiore. Tutt’altra storia è, oggi, quella di giovani borghesi che aderiscono alla jihad: ragazzi vissuti in ambienti familiari caratterizzati dalla dispersione dell’autorevolezza, ambienti familiari che hanno abdicato  alla funzione genitoriale del dare regole e punti di riferimento.La Jihad offre a questi giovani da un lato l’eccitazione esaltante della  guerra, permettendo una illusoria crescita da adolescente ad adulto attraverso la guerra  e la morte, dall’altro il contenimento e la sicurezza di regole dure e spietate.  Il richiamo della guerra santa va a colmare  il vuoto della politica latitante e superficiale, incapace  di interpretare i fenomeni, di portare l’attenzione su questioni sociali date per scontate e non immediatamente evidenti nella loro complessità, che non è stata capace di operare una reale integrazione delle minoranze, l’ insipienza  dei sistemi educativi, scolastici e familiari, che non hanno saputo dare le risposte giuste ai bisogni d’identità  e d’impegno politico -sociale dei giovani.

Nessun commento :

Posta un commento